Tutto quello che non torna nel caso Acerbi | Rolling Stone Italia
Campo minato

Tutto quello che non torna nel caso Acerbi

Nessuna dietrologia e nessun complotto. Atteniamoci solo ai fatti che hanno coinvolto il difensore dell’Inter e il collega del Napoli Juan Jesus. Ecco come sono andate le cose (e come questo caso è riuscito a “dribblare” un precedente molto simile)

Tutto quello che non torna nel caso Acerbi

Francesco Acerbi e Juan Jesus in campo domenica 17 marzo

Foto: Jonathan Moscrop/Getty Images

Premessa. Di mezzo non c’è nessuna dietrologia, nessun riferimento a qualche tipo di complotto che potrebbe coinvolgere l’Inter – quest’anno va molto di moda, tra i tifosi avversari – o che, come da storia della Serie A, tirerebbe in ballo le cosiddette «strisciate», cioè le squadre a strisce del nord (Juventus, Milan e appunto Inter) che ciclicamente riceverebbero favori dal Palazzo a scapito delle altre, sempre a detta di tifosi e non solo (Fabio Capello, storico allenatore sia al nord che a Roma, quand’era nella Capitale aveva parlato di «vento del nord»). Ecco, niente di tutto questo. Né si vuole dare adito a quella teoria per cui la giustizia sportiva avrebbe usato la mano morbida, con Acerbi, perché una squalifica per lui che ha 36 anni avrebbe significato rescissione di contratto con l’Inter, saltare gli Europei con Nazionale e, di fatto, fine della carriera. No, qui si sta ravvisando un fatto.

Il fatto, appunto. Dopo una strana e lunga tarantella di versioni più o meno collimanti, il difensore nerazzurro non è stato squalificato per l’insulto razzista che avrebbe rivolto al collega del Napoli, Juan Jesus, durante la partita di domenica 17 marzo. In campo nessuno ci aveva fatto caso, tranne Jesus stesso, che l’aveva riferito all’arbitro. Poi su Instagram ha scritto di essersi sentito dire: «Vai via nero, sei solo un ne*ro». Durante la partita era subito partita (pardon) la prima scaramuccia, con Acerbi che, sempre secondo l’avversario, aveva chiesto scusa («Per me ne*ro è un insulto come un altro»: mmmh…). I due avevano concordato che erano «cose di campo», e era finita lì. Anzi, no: ai giornalisti, Acerbi ha poi negato di aver usato epiteti razzisti, mandando in bestia Jesus e il Napoli. Ha detto di essersi rivolto a Jesus dicendogli «ti faccio nero». L’ipotesi allora è diventata quella di un vero e proprio «fraintendimento», nei fatti avallato dal giudice. Sì, perché nella sentenza che lo assolve si parla di «assenza di prove»: siccome non c’erano testimoni, tantomeno telecamere o microfoni che hanno raccolto la scena, l’accusa di Jesus non è bastata. Con una crepa importante però: l’assoluta buonafede di Jesus, riconosciuta dal giudice stesso.

Ed è questo il punto. Ora: chiunque è innocente fino a prova contraria, e non sta al giudice stabilire se un fatto sia accaduto o meno; il suo lavoro consiste solo nello stabilire se ci sono gli estremi per punire l’imputato o no. Ebbene, come hanno già fatto notare in parecchi, viste le condizioni, gli estremi potevano esserci. O almeno: c’era un precedente. Quello di Santini, calciatore del Padova (Lega Pro, terza divisione del campionato professionistico) squalificato nel 2021 per insulti razzisti a un avversario. «Il fatto contestato può essere ritenuto provato anche se il quadro probatorio sia formato dalle sole dichiarazioni della persona offesa, purché sia sottoposta a vaglio positivo circa la sua attendibilità e senza la necessità della presenza di riscontri esterni», si legge sulla sentenza dell’epoca. In sintesi: in certi casi, può bastare la parola del giocatore offeso. E allora perché quella di Jesus, ritenuto in buonafede, no? Possibile che il giudice ha creduto al fraintendimento e al fatto – goffo, diciamolo – che Acerbi abbia detto «ti faccio nero» a un giocatore nero?

Possibile, certo, ma l’ipotesi scricchiola. Detto questo, di nuovo, ciascuno è innocente fino a prova contraria, ma le ragioni dietro una sentenza come quella di Santini si possono immaginare: visto che il razzismo è un problema urgente tanto fuori quanto dentro gli stadi, dare credito alle versioni dei calciatori insultati, pure in assenza di altre prove, è un modo per dare un segnale al sistema tutto; per dire che la giustizia c’è e ascolta, tenendo conto che è difficile immaginarsi un calciatore nero che inscena un teatrino dal niente solo per squalificare un avversario o fare rumore (fermo restando che la ragionevolezza dell’accusa va comunque dimostrata, e non è poco).

Vedendo com’è stata gestita la vicenda Acerbi al di fuori della giustizia, e cioè trasformandola in una questione di tifo, con molti tifosi interisti che – senza tenere conto delle tante campagne contro le discriminazioni della loro società – si sono schierati a prescindere con lui, e altrettanti delle altre squadre che lo hanno condannato dimenticandosi cosa si veda nei loro stadi, be’, viene da dire che un problema c’è. E intanto, da domenica, il Napoli non avrà sulla divisa il simbolo che la Serie A ha adottato contro la lotta al razzismo: perché, ancora, un problema evidentemente c’è, e coinvolge le istituzioni, il modo in cui decidono, comunicano, fanno sentire la loro presenza. Al di là del caso Acerbi.

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