Quanto poco abbiamo capito Siniša Mihajlović (spoiler: pochissimo) | Rolling Stone Italia
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Quanto poco abbiamo capito Siniša Mihajlović (spoiler: pochissimo)

Sul suo conto ne sono state dette troppe: è nazionalista, è fascista, è razzista; è guerrafondaio, è un violento, è un maschilista. Giudizi superficiali che non tengono conto di cosa potesse voler dire essere ventenni nei Balcani degli anni ’90. Facciamo uno sforzo

Quanto poco abbiamo capito Siniša Mihajlović (spoiler: pochissimo)

Siniša Mihajlović con la maglia della nazionale della Jugoslavia ai campionati Europei del 2000, in Belgio e Paesi Bassi

Foto di Uwe Kraft/ullstein bild via Getty Images

Un’immagine sbagliata, quella del “guerriero”. O meglio: magari giusta, ma solo fino ad un certo punto. Sì perché, nel ricordare Siniša Mihajlović, assurdamente scomparso a soli 53 anni, ancora nel pieno della sua carriera di allenatore e, soprattutto, del suo entusiasmo verso la vita, questa definizione è praticamente ubiqua. Già è parzialmente tossica la narrazione per cui contro certe malattie si “combatta”, come a dire che chi muore non è stato bravo abbastanza, anche se possiamo capire la buonafede di molti nell’esprimersi in questo modo. Il problema è che quando si usano termini bellici attorno alla figura di Mihajlović, si maneggia una materia molto ma molto rischiosa.

Senza tanti giri di parole: soprattutto a sinistra, sono state dette imbarazzanti stronzate o per lo meno inesattezze – a livello di sferzanti giudizi morali in primis – su di lui. È nazionalista, è fascista, è razzista; è guerrafondaio, è un violento, è un maschilista. E le supposte prove di queste affermazioni venivano pescate in un rosario che andava dalla amicizia mai rinnegata con Arkan (uno dei più spregevoli, crudeli, feroci figuri abbia mai attraversato la storia dell’Europa nel secondo dopoguerra) ad alcune dichiarazioni pro-Salvini (ad esempio il «Fidatevi di Matteo. Se votassi, sceglierei Borgonzoni» nei giorni dei ballottaggi alle elezioni regionali, effettivamente una discreta fesseria), passando per il modo di esprimersi nelle interviste di Mihajlović, un modo che spesso e volentieri pescava nel machismo da spogliatoio e da caserma. Chiaramente ora nei momenti del lutto si eviterà di andare a ritirare fuori in pubblico e nei vari chiacchiericci social questi giudizi (oddio: qualcuno lo fa comunque), ma questa rappresentazione bidimensionale di Mihajlović Siniša sarà dura a morire, presso i presunti custodi della sana visione pluralista e tollerante ma al tempo stesso profondamente valoriale e giudicante di certa sinistra-sinistra. Ovvero, i moralisti travestiti da iper-tolleranti ed anti-fascisti, ma in realtà piccolo-borghesi moralisti e saccenti pure loro, per giunta dall’alto di ‘sto cazzo (…scusate il francese).

Siniša Mihajlović era in realtà tutto tranne che un uomo bidimensionale. Fin dalla biografia. Chi lo accusa di nazionalismo serbo, probabilmente ignora – o finge di ignorare – che sua madre Viktorija, che è stata al suo capezzale fino alla fine e che lui amava così tanto da dare il suo nome ad una delle proprie figlie, è croata. Ignora poi, o finge di ignorare, dei brandelli di biografia personale che sono apparsi in alcune interviste molto intense e molto dolorose: in quella spirala di violenza assurda che erano diventati i Balcani nei primi anni ’90, Mihajlović si è trovato ad avere uno zio – il fratello della madre – che minacciava di uccidere suo padre, ma si è anche trovato a salvare letteralmente la vita di questo stesso zio una volta che egli è stato catturato dalle Tigri di Arkan: ecco, prima di tranciare giudizi, cercate di immedesimarvi in una persona che dalle assurdità della storia si ritrova a salvare la vita di chi ha minacciato di uccidere tuo padre definendolo testualmente «…un maiale da scannare», e questa persona è comunque uno di stretta famiglia, è il fratello di tua madre.

O immedesimatevi anche in chi vede il proprio migliore amico d’infanzia fare irruzione nella casa dei tuoi genitori a Vukovar, nei giorni della guerra, sparando all’interno e mirando esplicitamente alle foto esposte in sala, per poi scoprire solo anni dopo che questo tuo amico se non avesse fatto irruzione a casa tua con piglio guerresco sarebbe stato giustiziato dai suoi (era croato), e in realtà ha fatto una irruzione così plateale ed aggressiva per mandare un messaggio implicito ed accorato ai tuoi «Andatevene da qui, o morirete – e io non voglio che moriate» (aneddoto raccontato tra gli altri anche a Walter Veltroni, non propriamente un camerata o un leghista, e quest’ultimo lo ha riproposto sul Corriere in un ricordo pubblicato in queste ore).

Sono situazioni che trasformerebbero qualsiasi persona. Così come ti trasformerebbe il fatto che un tuo compagno di nazionali giovanili (siete stati anche compagni di stanza in ritiro!) ad un certo punto, nel tunnel prima di scendere in campo, ti affianchi e ti sibili all’orecchio «Prego Dio che i miei uccidano tutta la tua famiglia, lì nei sobborghi di Vukovar, a Borovo». E tutto questo è successo, è successo davvero, non è finzione: prima di un Hajduk – Stella Rossa, nel 1991. Di più: a distanza di anni Mihajlović e l’ex compagno suddetto, Štimac, si sono anche parlati civilmente, nonostante quest’ultimo avesse avuto altra alzate d’ingegno (tipo chiedere di far battare il calcio d’inizio di un Croazia – Serbia ad Ante Gotovina, uno che non era molto meglio di Arkan, solo di parte croata). Si sono parlati civilmente e si sono, in qualche modo, capiti. Non si sono certo riappacificati. Ma si sono capiti.

Essere stati ventenni e trentenni nei Balcani degli anni ’90 significa infatti essere stati sottoposti ad una pressione sociale e culturale folle e delirante. Da qualsiasi parte si fosse nati, o schierati. C’è chi è stato bravo a tenere questa cosa per sé, senza farla emergere tanto nei comportamenti pubblici più banali (un nome a caso: Boban, che però ricordiamolo è uno che pur di difendere uno degli ultrà della propria squadra non si fece problemi a prendere a calci un poliziotto, durante l’infausto Dinamo Zagabria – Stella Rossa del 1990 mai disputatosi per incidenti e visto da tutti come il vero preludio delle guerre balcaniche), e c’è chi invece è stato più senza filtri. Mihajlović, appunto. Uno che ha sempre scelto di parlare diretto, senza imbellettamenti, senza political correctness.

Ma non va dimenticato che proprio per storia personale, ed anche per parecchie dichiarazioni guarda caso sottovalutate o semplicemente ignorate dai moralisti di sinistra, Mihajlović è stato uno degli ultimi a cedere al delirio nazionalista pre-bellico, invocando con accorata ad addolorata sincerità una coesistenza pacifica, spiegando come fosse più che possibile convivere tra serbi e croati (del resto: l’esempio erano i suoi genitori) e tra tutti gli altri popoli di quella che allora era la Jugoslavia. La sua era una sensibilità molto più pluralista di chi invece ha soffiato sul fuoco dell’odio e della necessità di “depurare” la propria identità dalla presenza del “nemico”, dell’”altro da sé”. In tal senso, Mihajlović è sempre stato molto ma molto meno nazionalista di altri atleti e personaggi pubblici dell’area, che evocavano ed invocavano invece una palingenesi di purezza etnica (e ve n’erano da tutte le parti: serbi, ovviamente, ma altrettanti se non di più erano croati).

Come si sposa tutto questo con la sua famigerata vicinanza col macellaio di guerra Arkan, altro punto dolente che gli è sempre stato rinfacciato? Si spiega in due modi. Il primo, è il fatto di aver conosciuto Arkan quando era semplicemente il capo degli ultrà della sua squadra dell’epoca, la Stella Rossa (…e sappiamo bene quanto i capi ultrà siano raramente delle persone degne e specchiate: anche in Italia), e se sei un giocatore in vista – ricordiamolo, Mihajlović passò dalla Vojvodina alla Stella Rossa per la cifra di un miliardo di marchi tedeschi che era allora un record assoluto per gli spazi calcistici balcanici, era insomma un golden boy della squadra – è inevitabile che entri in contatto con chi è visto come il rappresentante carismatico della curva della squadra per cui giochi, ed è facile pure che i rapporti siano molto cortesi, d’altro canto pure l’eroe-del-popolo Maradona era circondato da camorristi che lo omaggiavano e lui non si tirava indietro, ma nessuno si sogna di dare del camorrista a Maradona. Secondo punto, quando la guerra è scoppiata ed Arkan ha mostrato il suo vero volto, quando è diventato l’icona del nazionalismo serbo più sanguinario, ciò che si dimentica sempre è quanto drammaticamente strabica sia stata inizialmente l’opinione pubblica occidentale: i croati buoni, innocenti ed aggrediti, i serbi invece sanguinari oppressori sterminatori.

Chi invece la guerra la viveva sulla sua pelle, sapeva molto meglio come stavano le cose (…e ci arrivò anche Papa Wojtyla, che sconfessò dopo un paio d’anni la linea di totale appoggio del Vaticano alla Croazia ed alla linea del cardinale croato Kuharić, uno che teneva messa chiedendo di sterminare gli infedeli, alias i serbi ortodossi; Wojtyla capì ad un certo punto che i torti stavano da tutte le parti e le divisioni non correvano tra serbi e croati, coi buoni da una parte e i cattivi dall’altra, ma tra cinici guerrafondai per vantaggio personale e popolazione innocente, una divisione che tagliava trasversalmente le nazionalità). Da una prospettiva serba, la pulizia etnica in zone della Croazia a maggioranza serba era stata iniziata dai croati, che volevano questi territori per sé e per la nascente nazione “ripulendoli” da chi non era allineato, per idea politica o per origini di nascita, rispetto all’ideale di purezza nazionalista croata; e questa “pulizia” era stata brutale e condotta con metodi terrificanti, vicini al nazifascismo. Arkan era diventato colui che “difendeva” i serbi vittime di questo feroce cambio di paradigma e di queste persecuzioni. Che non ci siano equivoci: Željko Ražnatović detto Arkan è un individuo orribile (chi vi scrive stava per essere preso a pistolettate dai suoi sgherri: figuratevi quanto gli voglio bene), al nazionalismo bellico croato ha risposto ripagando con la stessa moneta e mettendoci pure il carico di un ulteriore folle e morboso cinismo violento e patologico (gli stupri di massa, gli omicidi tanto per il gusto di farli, le razzie: li ordinava lui, ne era il primo artefice e sostenitore); ma agli occhi dell’opinione pubblica serba, che era ovviamente “drogata” dall’informazione di regime ma anche dalla retorica bellicista che aveva preso il sopravvento su tutta la regione, Arkan faceva sì cose crudeli ma solo come “risposta” ad una crudeltà che arrivava originariamente dalla parte avversa.

Il supposto nazionalismo serbo di Siniša Mihajlović nasceva insomma da situazioni dolorosissime e particolari, ed era un’arma di difesa (e di offesa) contro chi aveva voluto spezzare la pacifica convivenza della Jugoslavia titina – guarda caso Mihajlović si è sempre detto un grande sostenitore della Jugoslavia sotto Josip Broz, altra cosa che viene scientificamente ignorata o non citata dai suoi avversatori di sinistra-sinistra. Se davvero la dinamica balcanica degli anni ’90 fosse stata quella di “Serbi aggressori, croati vittime”, allora le prese di posizione di Mihajlović sarebbero state effettivamente solo nazionalismo e bellicismo, unilaterale e violento; ma le cose stanno in tutt’altro modo. Così come stanno in tutt’altro modo probabilmente pure le cose attorno al famoso striscione “Onore alla Tigre Arkan” esposto dagli Irriducibili laziali, che nella narrazione popolare si vuole commissionato da Mihajlović stesso, cosa che Siniša negherà recisamente più volte e, anche se la verità la sanno probabilmente solo i diretti interessati (e quindi non la sapremo mai), è comunque un dato di fatto che dopo quell’episodio i rapporti tra il giocatore e la curva si ruppero clamorosamente ed irrimediabilmente. Segno oggettivo che quello striscione, così com’era, a Mihajlović piacesse fino ad un certo punto. Può non piacere il fatto che lui non abbia mai rinnegato l’amicizia con Arkan, che abbia effettivamente pubblicato un necrologio accorato alla sua morte; ma non ha mai negato che Arkan stesso si fosse macchiato di crimini orribili durante la guerra balcanica tra serbi e croati (chiosando, ed è una chiosa non senza senso, «In guerra la cose orribili diventano la regola, una regola a cui è difficile sottrarsi»), ed in realtà anche più tardi, quando Arkan seminava terrore ed estorsioni mafiose a Belgrado (portando anche una anonima squadra di serie B serba, l’Obilić, a salire non solo in prima divisione ma addirittura a vincere il titolo, con metodi paramafiosi), fingendosi raffinato businessman di successo. Ma anche lì: i Balcani post-bellici erano un contesto dove i peggio criminali erano diventati role model o addirittura influenti uomini politici, gente insomma del tutto rispettabile e/o rispettata, Arkan era un esempio fra tanti. E Mihajlović peraltro più di una volta denunciò questo stato delle cose, dicendo che era inaccettabile e doloroso che il vero esempio di successo da seguire, nei Balcani post-titini, fossero diventati i criminali.

Insomma: è vero che Mihajlović spesso finiva coll’indulgere in una retorica maschilista (ma se cresci in una nazione dove soffia e poi deflagra la tempesta della guerra civile, è una cosa che ti si appiccica addosso facilmente); è vero che non ha mai preso abbastanza le distanze da Arkan; è anche vero non le ha mai prese abbastanza da Milošević, il vero puparo mefistofelico dell’odio nazionalista degli anni ’90 assieme al croato Tudjman, ma è anche vero che ad un certo punto la Serbia miloševiciana venne bombardata dalla NATO, una scelta politica discutibile e grave e mai approvata dall’ONU avvallata lo ricordiamo da D’Alema in primis, e se devi scegliere tra i tuoi e chi ti bombarda scegli i tuoi, da chiunque essi siano rappresentati. Ma in tutto questo, chiunque entrasse in contatto con Mihajlović sotto la scorza dura ed urticante trovava una persona di cuore, molto sensibile, finanche dolce (…non è un caso che molti appassionati di calcio ex-jugoslavo che hanno fatto in tempo a vederlo nella Vojvodina e nella prima Stella Rossa lo ricordino prima di tutto come un calciatore gioioso, sorridente); e trovava una persona che se interrogata sui drammi bellici e politici delle sue zone, diceva cose molto più aperte, tolleranti e pluraliste di gente che invece passa per irreprensibile e non macho-bellicista. Nulla di strano.

Ecco perché troviamo inadeguato e fuorviante questo profluvio di ricordi riuniti sotto l’egida del “guerriero”. Siniša Mihajlović è stato molto di più, è stato molto meglio. È stato ed è anche uno dei pochi che nel mondo del calcio ha sempre detto le cose in faccia, e che non ha mai cercato rifugi o giustificazioni di comodo. Tutto questo portando avanti una vita privata esemplare, fatta di un forte senso della famiglia (è una colpa? Tra l’altro, alla faccia del supposto iper-nazionalismo serbo: non solo la madre è croata, ma la moglie è italianissima, è romana di borgata) e anche di molta beneficenza fatta sotto traccia, esattamente come il suo buon amico Zlatan Ibrahimović, altra figura troppo spesso interpretata bidimensionalmente.

Gli eroi cattivi, cercateli altrove. Siniša Mihajlović era un carattere duro e sfaccettato, con scelte e percorsi fatti anche di zone d’ombra e di momenti discutibili; ma era una persona di cuore. Una persona che cercava in primis la sincerità e la schiettezza, non lo scontro: quello arrivava solo se vedeva mancare le prime due. Alla faccia dell’ipocrisia imperante.