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Quante cose dovremmo imparare dalle proteste francesi

La Francia non è solo il Paese in cui si lotta per tenere bassa l’età pensionabile, ma anche delle cinque settimane di ferie, delle 35 ore di lavoro settimanali, del diritto alla disconnessione e di un sistema di previdenza sociale esteso e capillare

Foto di BENOIST/AFP via Getty Images

Alla fine la riforma delle pensioni è diventata legge. Il governo francese, in mancanza dei voti necessari alla Camera Bassa del Parlamento, ha deciso di utilizzare lo strumento della fiducia, utilizzando l’articolo 49.3 della Costituzione, che permette a un primo ministro di approvare un testo di legge in materia finanziaria o di finanziamento al welfare senza passare da una votazione parlamentare, per far passare la legge.

La reazione delle piazze non si è fatta attendere: già dalla sera di giovedì 16 marzo, migliaia di persone si sono riuniti a place de la Concorde, a Parigi, per protestare contro la discussa riforma delle pensioni. Nella sola giornata di venerdì ci sono stati ben 300 fermi, di cui 258 a Parigi.

La scelta della Concorde non è casuale, si tratta di un luogo dal forte valore simbolico: qui, ai tempi della Rivoluzione francese, venne posizionata infatti la ghigliottina che decapitò, tra gli altri, il Re Luigi XVI e la sua consorte, Maria Antonietta. Oggi le teste reclamate – simbolicamente – dalle piazze sono quelle del presidente Macron e della premier Elizabeth Borne.

Nulla di nuovo: la Francia vanta infatti un lunga tradizione di scioperi e manifestazioni, anche violente e sanguinose. Ultime in ordine cronologico, quelle organizzate nel 2018 dal movimento dei gilet jaunes (gilet gialli), caratterizzate da devastazioni e scontri molto violenti tra i manifestanti e le forze dell’ordine.

Le manifestazioni di ieri sono però solo le ultime di una serie di scioperi e mobilitazioni nazionali che vanno avanti da gennaio scorso. Si tratta di scioperi partecipatissimi – i sindacati hanno parlato di 3 milioni e mezzo di persone – che coinvolgono diversi settori pubblici, dalla scuola ai mezzi di trasporto alla raccolta dei rifiuti fino al settore energetico, paralizzando per giorni intere aree del Paese e provocando non pochi disagi a cittadini e turisti.

Le proteste hanno come bersaglio principale la riforma che prevede l’aumento dell’età pensionabile da 62 a 64 anni, e che vede contrari ben il 70% dei francesi. Un altro dei punti molto contestati della proposta di legge riguarda l’anticipazione dal 2035 al 2027 della cosiddetta legge Touraine, che, tra le altre cose, aumenta di un anno il periodo per cui è necessario versare contributi per andare in pensione e l’abolizione di alcuni regimi pensionistici speciali.

Ad essere maggiormente colpiti dalla riforma sarebbero i lavoratori della classe media, quelli delle fasce più povere o appartenenti alle cosiddette categorie usuranti. Il presidente Macron aveva già provato a riformare le pensioni francesi nel 2019, ma senza successo. Non era stato l’unico: il sistema pensionistico francese è molto complesso e, secondo molti analisti, eccessivamente costoso (nel 2020 è costato come il 13,6% del PIL, meno comunque, in proporzione, di quello italiano: 15,6% del PIL) e quindi poco sostenibile nel lungo periodo. Macron punta quindi all’innalzamento dell’età pensionabile così da far risparmiare le casse dello Stato.

Ci sono però economisti che hanno espresso dubbi sulla validità di questa riforma: «È diventata una narrazione politica l’esagerazione e la drammatizzazione della questione del deficit», ha detto l’economista Michaël Zemmour a France24, sostenendo che si tratta di un problema reale ma non tale da giustificare l’innalzamento dell’età pensionabile.

Intanto, i sindacati hanno dichiarato un’altra giornata di mobilitazione per giovedì prossimo. I settori in cui lo sciopero “ad oltranza” continua con determinazione sono soprattutto quelli della nettezza urbana (10 mila tonnellate di immondizia occupano le strade della capitale francese) e dell’energia. Anche il leader de La France Insoumise, Jean-Luc Mélenchon, ha «incoraggiato» le «mobilitazioni spontanee in tutto il Paese. Questo testo non ha alcuna legittimità – ha aggiunto –, chi si ribella ha ragione».

In un Paese come l’Italia, dove l’età per la pensione è stata fissata a 67 anni, queste proteste possono sembrarci esagerate e fuori luogo. Per comprenderle, è necessario adottare il punto di vista francese sul tema dei diritti sociali e sul lavoro. La Francia, infatti, non è solo il Paese in cui si lotta per tenere bassa l’età pensionabile, ma è anche quello delle cinque settimane di ferie, delle 35 ore di lavoro settimanali, del diritto alla disconnessione – ovvero il diritto dei dipendenti di non essere contattati dai propri capi o superiori oltre l’orario di lavoro –, e di un sistema di previdenza sociale esteso e capillare. Per offrire questo tipo di garanzie e di tutele ai cittadini, il Paese ha investito molto negli anni in un modello di Stato sociale forte. Un investimento che ha costi importanti per le finanze dello Stato, ma che produce effetti positivi sulle condizioni di vita delle persone: grazie ai sussidi erogati dallo Stato, la Francia è infatti uno dei Paesi più egualitari d’Europa, in cui la redistribuzione economica è più forte e dove le disuguaglianze sono meno marcate.

Non solo, secondo un recente sondaggio, in Francia le persone per cui il lavoro rappresenta un elemento molto importante nella vita sono passate dal 60% nel 1990 a – solo – il 24% nel 2021. Più o meno nello stesso periodo, la percentuale di persone che accetterebbe un salario più basso per lavorare meno ore ha superato la metà del totale.

Per tutti questi motivi, la maggior parte dei francesi si sta ribellando con forza alla riforma delle pensioni voluta da Macron. In questo senso, le proteste per l’innalzamento dell’età pensionabile rappresentano, da una parte, un tassello della grande battaglia in difesa dei diritti sociali per i quali il Paese ha lottato da sempre, dall’altra, la spia di un cambiamento più profondo che sta investendo la società francese e occidentale tutta.

Guardando da vicino al modello francese, sembra quasi che il concetto di produttività vada di pari passo o, in alcuni casi, venga dopo il diritto alla salute e al riposo. Non a caso, il fenomeno delle Grandi Dimissioni (mezzo milione le persone che si sono dimesse dal post-Covid in poi) e del quiet quitting (lavorare il minimo indispensabile) sono molto sentiti in Francia. Contemporaneamente, anche l’interesse per carriera è scemato nel corso del tempo. Si tratta di un cambio di mentalità e di priorità che sta interessando tutto il mondo del lavoro, ma che qui è più accentuato e assume forme anche radicali. In pratica, le rivendicazioni che oggi i lavoratori stanno portando avanti in molti Paesi, Italia compresa, in Francia sono state avanzate, e in molti casi ottenute, già da anni, dimostrando che lottare per i propri diritti è fondamentale per ottenere importanti conquiste sociali e civili. Un motivo in più di orgoglioso per i francesi, che, sotto questo punto di vista si sentono ‘unici’ rispetto agli popoli europei, e per questo si mostrano così insofferenti all’idea di cambiare modello.

L’aspetto paradossale del contesto francese sta nel fatto che il presidente eletto, Emmanuel Macron, risulta invece essere un grande stacanovista, che pare dorma tre, massimo quattro ore per notte. Un presidente quindi molto diverso dall’immagine che i francesi vogliono proiettare di sé stessi verso l’esterno, e che incarna una mentalità totalmente opposta a quella “rilassata”, che ha adottato gran parte della popolazione francese.

Intanto, le opposizioni affilano le armi si organizzano per sfoderare l’ultima arma istituzionale a loro disposizione per bloccare la riforma: far cadere il governo di Elisabeth Borne. Per ora sono state presentate due mozioni di sfiducia: una da parte del Rassemblement National di Marine Le Pen; l’altra da parte del gruppo di deputati indipendenti Liot, già sottoscritta dall’alleanza di sinistra, Nupes. L’obiettivo resta però molto difficile da raggiungere: anche mettendo insieme i voti dell’estrema destra e quelli dell’estrema sinistra, e aggiungendo a questi una quota dei Repubblicani “disobbedenti” alleati del governo, il raggiungimento dei 287 voti necessari per la sfiducia appare improbabile.

Il governo, con molta probabilità, terrà, ma la spaccatura con il Paese si fa sempre più grave e profonda. Le proteste e gli scontri sono destinati a continuare ancora a lungo, perché, come si leggeva in uno dei cartelli presenti nelle manifestazioni di piazza di questi giorni: «Noi non faremo la fine dell’Italia». In Francia è vivo lo spirito della Rivoluzione.

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