Fratelli d’Italia ha ragione: non parlare in inglese ci renderà dei veri patrioti | Rolling Stone Italia
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Fratelli d’Italia ha ragione: non parlare in inglese ci renderà dei veri patrioti

Il deputato Fabio Rampelli vuole sanzionare – con multe fino a 100mila euro – chi abusa di forestierismi, inficiando la purezza della veterolingua italica. Ora, provate per un secondo a immaginarvi la parola “calcolatore elettronico” al posto di “computer” in un documento ufficiale: che reazione avreste? Per non parlare della genialità di proporre un disegno del genere quando si sostiene un governo che ha consacrato un ministero al "Made in Italy". Are you crazy or what?

Fratelli d’Italia ha ragione: non parlare in inglese ci renderà dei veri patrioti

Foto di Hugh Pinney/Getty Images

La difesa degli inestimabili caratteri nazionali è la parte essenziale della Weltanschauung (pardon) del governo Meloni: nessuno tocchi i nostri confini nazionali, nessuno provi a contestare la nostra cucina e a prodigarsi in inutili revisionismi di bassa lega – magari spingendosi addirittura a ritenere che quella primigenia intuizione sfociata in una felice contaminazione tra maiale, uovo e formaggio stagionato comunemente definita “carbonara” non sia un’invenzione patria: siamo pazzi? –,nessuno provi a scalfire il dogma della famiglia nucleare, cattolica ed eterosessuale… e, manco a dirlo, nessuno metta in discussione la bellezza e la musicalità del nostro idioma nazionale.

Nella lista delle identità che Fratelli d’Italia intende salvaguardare, la lingua occupa un posto di rilievo: la proposta presentata la scorsa settimana dal deputato Fabio Rampelli punta a fare tabula rasa di anglicismi inutili, a cancellare la normalizzazione di aberrazioni come “schedulare”, “easy” e “beviamo un coffee”, preservando quella bellezza un po’ ancestrale del lessico nazionalpopolare intaccata da un decennio abbondante di hashtag, Junior Account Manager, Chairman, CFO, CEO, HR Resource e chi più ne ha più ne metta; basta, ci suggerisce Rampelli, imparate a parlare in italiano.

Il nostro eroe vorrebbe sanzionare l’utilizzo delle parole inglesi nella pubblica amministrazione. Ma non solo: «lingua italiana obbligatoria per la fruizione di beni e servizi. Imposizione di trasmettere qualsiasi comunicazione pubblica in italiano. Obbligo di utilizzare strumenti di traduzione o interpreti per ogni manifestazione o conferenza che si svolga sul territorio del Paese. Divieto di usare sigle o denominazioni straniere per ruoli in azienda, a meno che non possano essere tradotte. A scuola e nelle università, corsi in lingua straniera tollerati solo se giustificati dalla presenza di studenti stranieri», con tanto di multe fino a 100mila euro.

Ora: una proposta così stupida merita un approfondimento serio, perché riassume al meglio la quantità di questioni assolutamente irrilevanti che la maggioranza dell’emiciclo porta all’attenzione pubblica per evitare di misurarsi con i problemi urgenti, quelli pragmatici (il ritardo nella spesa dei fondi europei, l’emergenza energetica, la decarbonizzazione non pervenuta: la lista è lunga).

Per cui d’accordo, proviamo a prendere l’indignazione linguistica rampelliana con massima serietà: potremmo partire dall’assenza di qualsiasi possibilità di applicazione effettiva, dato che da un ventennio abbondante molte parole della lingua inglese sono entrate nel linguaggio comune – peraltro, Rampelli giustifica il suo proibizionismo sulla base dei dizionari e dei 9mila anglicismi attualmente presenti nel vocabolario della Treccani su circa 800mila parole in lingua italiana: il nulla; non dovesse bastare, provate per un secondo a immaginarvi la parola “calcolatore elettronico” al posto di “computer” in un documento ufficiale, oppure “topo” al posto di “mouse”, “dispensatore” in luogo di “dispenser”: se un nostro conoscente si esprimesse così avremmo ancora stima di lui? Forse, però che pesantezza –, e invece no: c’è una contraddizione di fondo che merita un premio speciale.

Mi riferisco alla genialità di proporre un disegno del genere quando si sostiene un governo che ha consacrato un ministero al “Made in Italy”: un vero e proprio capolavoro, dato che il primo a essere colpito dalla proposta di Rampelli sarebbe… il governo sostenuto da Rampelli.

Al di là degli ovvi risvolti fantozziani, ci sono quelli pratici: ad esempio, come ha scritto su Huffpost Giuliano Cazzola, uno dei rischi è «rimanere degli analfabeti nei confronti della “lingua del mondo” che per ora (anche per i cinesi) è l’inglese: il latino del mondo di oggi». Siamo il popolo dell’«Io no spik inglish» del «Don’t say cat in in the sak», dovremmo potenziare questa skill (pardon, competenza) e aprirci al mondo, anziché crogiolarci nei fasti di un – presunto – passato mitico e irragiungibile. E invece no: per Rampelli è più importante ripristinare la veterolingua italica.

L’ennesima arma di distrazione di massa Made in Meloni e soci è servita: It’s the End of the World as We Know It.