Per il Parlamento italiano diffamare due ragazze rapite non è reato | Rolling Stone Italia
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Per il Parlamento italiano diffamare due ragazze rapite non è reato

Ieri il Senato ha deciso che un che un senatore «non può essere sottoposto a procedimento giudiziario» per avere falsamente accusato Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, le due ragazze rapite in Siria nel 2014, di aver avuto rapporti sessuali con i propri carcerieri

Per il Parlamento italiano diffamare due ragazze rapite non è reato

Foto via Getty

Greta Ramelli e Vanessa Marzullo accolte da Paolo Gentiloni a Ciampino. Roma, 2015

In Italia esiste un modo perfettamente legale di insultare, denigrare e diffamare una persona: essere un parlamentare.

Andando più nello specifico, si possono falsamente accusare due ragazze rapite in Siria di aver avuto rapporti sessuali con i propri carcerieri senza dover subire alcuna conseguenza.

Il 21 settembre del 2023, infatti, il Senato ha sancito che il senatore di Forza Italia Maurizio Gasparri «non può essere sottoposto a procedimento giudiziario» in quanto le sue dichiarazioni rientrano nell’ambito dell’articolo 68 della Costituzione italiana e sono quindi coperte dall’insindacabilità parlamentare.

Già a luglio, la giunta delle immunità parlamentari si era espressa a favore dell’insindacabilità.

Le dichiarazioni in questione risalgono al 17 gennaio del 2015, quando Gasparri pubblicò questo tweet: “#VanessaeGreta sesso consenziente con i guerriglieri? E noi paghiamo!”

L’hashtag si riferiva alle due volontarie italiane Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, da poco liberate dopo più di 150 giorni di prigionia in Siria. Le due ragazze erano state infatti rapite il 31 luglio del 2014 in uno dei momenti più cruenti della guerra civile siriana, e per mesi sono state al centro di una violentissima campagna denigratoria fatta di teorie del complotto, insulti sessisti e crudeltà assolutamente gratuita.

Il tweet di Gasparri va pertanto inserito in quel contesto, che ripercorro brevemente.

Poco dopo il rapimento, ad esempio, Il Giornale aveva pubblicato un articolo in cui Ramelli e Marzullo venivano definite “due incoscienti da salvare”, nonché due “ragazzine” che a causa della loro “imprudenza” faranno gettare al vento “i soldi dei contribuenti per pagare riscatti milionari”.

Tutto ciò si sarebbe potuto evitare, proseguiva l’articolo, se “le due signorine” si fossero limitate a rimanere “abbracciate strette strette” tra i “piccioni di piazza del Duomo” (qui l’articolista citava una foto delle ragazze scattata a Milano) dove “il rischio maggiore è di beccarsi un ‘regalo’ dai pennuti”.

Oltre a essere delle “incoscienti”, la stampa di destra e i siti complottisti le descrivevano come delle “samaritane innamorate del kalashnikov”, delle avventuriere “partite per farsi selfie con i ribelli”, delle “stronzette di Aleppo” da candidare al “Premio Darwin […] eventualmente alla memoria”, due “Boldrini”, o direttamente delle fiancheggiatrici di al-Qaeda e dell’ISIS – nonostante fossero state prese in custodia dal Fronte al-Nusra, che all’epoca era formalmente affiliato ad Al-Qaeda.

Un’altra accusa che andava molto in voga sui social era quella legata al tradimento dell’italianità – un grande tormentone in casi di questo genere. Invece di “fare volontariato per aiutare gli italiani in difficoltà”, si lagnavano diversi utenti, le due ragazze sono andate a infilarsi in una “zona di guerra in cui non ci sono Italiani da salvare”.

Dall’altro lato dello spettro – quello dell’indifferenza e del fastidio nei confronti della sorte di Ramelli e Marzullo – su Facebook era stata aperta una pagina intitolata “Delle due attiviste rapite in Siria non ce ne fotte un cazzo grazie”, piena zeppa di meme orrendi, fotomontaggi sessisti e offese di ogni tipo.

Dopo la liberazione, e le voci di un presunto pagamento per il riscatto, l’odio verso le due volontarie aveva raggiunto vette spaventose – specialmente sui siti bufalari, che all’epoca imperversano incontrastati sui social.

Un post pubblicato sul sito “La minchia nel pugno”, ad esempio, parlava di un “finto rapimento” inscenato dalle stesse volontarie per “finanziare il terrorismo islamico”. La riprova di questo diabolico piano sarebbe stata ricavabile dalla forma fisica delle due: non persone stremate e piegate da mesi di prigionia, ma “ragazze che sanno di aver ottenuto quello che volevano”.

La bufala più infamante e velenosa era però apparsa sui siti “Catena Umana” e “Piovegovernoladro”. Basandosi su un articolo del Giornale, i siti in questioni si erano letteralmente inventati rapporti sessuali consenzienti tra le volontarie e i guerriglieri.

Questo tipo di argomentazioni, a riprova della ricorsività di certi discorsi, sarebbero state poi riproposte nel caso di Silvio Romano, la cooperante rapita in Kenya nel 2018 e liberata nel 2020. Al momento del ritorno, infatti, la donna era stata accusata di indossare Rolex in oro giallo e di essere tornata incinta di un carceriere – circostanza ovviamente non vera.

Ma torniamo al 2015, e arriviamo all’entrata in scena di Gasparri. Dopo aver letto “Piovegovernoladro” – che evidentemente non poteva mancare nella dieta mediatica di un parlamentare – il politico aveva pubblicato quel tweet acritico, andando così a ingrossare l’ondata d’odio che stava sommergendo le volontarie.

In un’intervista a Repubblica, il senatore forzista aveva cercato di giustificarsi in questo modo: “Ho letto la notizia, mi sono limitato a chiedere se fossa vera. […] Io registro e chiedo. Non ho affermato nulla”.

Ramelli e Marzullo, dal canto loro, avevano sporto querela.

Ma otto anni dopo – otto anni dopo, è bene ripeterlo – il Senato ha deciso che un suo membro può impunemente rilanciare la bufala sessista di un sito dal nome improbabile, e soprattutto diffamare due persone traumatizzate da una lunga prigionia in un paese in guerra.

Qualcosa mi dice che i padri costituenti non avevano esattamente in mente questo scenario, quando hanno pensato al concetto di insindacabilità parlamentare.