Nomi, nomi e ancora nomi: il Pd cerca una guida, ma ciò che manca davvero è un’anima | Rolling Stone Italia
Attualità

Nomi, nomi e ancora nomi: il Pd cerca una guida, ma ciò che manca davvero è un’anima

Il congresso rifondativo si sta trasformando nella solita sfida personale tra anime diverse solo all'apparenza: Bonaccini e Schlein. È il solito giorno della marmotta, che passa ma poi si ripete uguale a sé stesso

Nomi, nomi e ancora nomi: il Pd cerca una guida, ma ciò che manca davvero è un’anima

ROME, ITALY - DECEMBER 04:Congresswoman Elly Schlein announces her candidacy for national secretary of the Democratic Party at the event "Part with us!" at the Monk cultural club in Rome, on December 4, 2022 in Rome, Italy. (Photo by Simona Granati - Corbis/Corbis via Getty Images) *** Local Caption *** Elly Schlein

Come ampiamente previsto da tutti gli osservatori, il sedicente congresso rifondativo del Partito Democratico sta diventando una via crucis in attesa dello scontro finale tra Stefano Bonaccini e Elly Schlein. I buoni propositi sulla necessità di aggiornare una linea politica naufragata nel giro di un quindicennio (gran parte del quale speso al governo) stanno perdendo male lo scontro con una realtà fatta più di personalità più o meno grandi che di idee. In linea puramente teorica, Bonaccini rappresenterebbe l’area centrista del Pd, mentre Schlein viene vista come la candidata della sinistra interna, ma poi basta andare a guardare come si stanno muovendo le famigerate correnti per rendersi conto che la faccenda è più complessa.

Per esempio sul governatore emiliano, oltre agli ex renziani, si sta piazzando l’area che fa capo a Matteo Orfini, mentre sulla sua vice si allunga l’ombra del mai redento democristiano Dario Franceschini. I socialdemocratici (o togliattiani, o quel che è) di Andrea Orlando stanno ancora valutando il da farsi, propendono per Schlein ma l’ideologo Goffredo Bettini spera ancora di riuscire a lanciare la candidatura del sindaco di Pesaro Matteo Ricci.

Lo vedete il problema di questo discorso? Nomi, nomi e ancora nomi: il discorso sul Pd non riguarda tanto la storia ma la geografia, e le giornate scorrono a soppesare i movimenti sotterranei dei vari notabili, alla ricerca del posizionamento giusto per entrare nella nuova fase con un ruolo vantaggioso.

Dietro tutto questo, che ovviamente riempie le pagine dei giornali e i profili social di chi ancora ci crede, altrove si sta discutendo di quella che sarebbe l’anima del partito, ovvero la sua «carta dei valori», la costituzione interna, la Grundnorm che, in linea puramente teorica, dovrebbe far capire al mondo di cosa parliamo quando parliamo di Partito Democratico.
Allo stato attuale delle cose, i valori del Pd sono in un documento approvato nel 2008: un’era geologica fa, prima del fallimento di Lehman Brothers, della crisi finanziaria che ha cambiato il mondo, degli studi di Piketty sulle disuguaglianze, dell’affermazione definitiva di un’Unione Europea che fa della burocrazia la propria ragion d’essere, della pandemia, della guerra, dei populismi, del ritorno dell’estrema destra, eccetera eccetera.

Sono quattro le righe decisive di quella carta dei valori. Leggiamole: «Compito dello Stato non è interferire nelle attività economiche, ma fissare le regole per il buon funzionamento del mercato, per mantenere la concorrenza anche con politiche di liberalizzazione e per creare le condizioni di contesto e di convenienza utili a promuovere innovazione e qualità».
Ne converrete, sembra roba del secolo scorso e in effetti, più o meno, lo è: lo Stato non deve disturbare i grandi attori economici, ma favorirne l’iniziativa. Fine ultimo della politica non è costruire una società migliore, ma creare e conservare il mercato. Un film scritto, diretto e promosso soprattutto da ex comunisti: Grazie, signora Thatcher.

Adesso qualcuno si è accorto che i tempi sono cambiati (diciamo così) e che una posizione del genere non viene spinta nemmeno dai più grandi finanzieri di New York. Persino Massimo D’Alema, che negli anni ’90, da primo e sin qui unico comunista ad aver guidato un governo in Italia, aveva spinto per affermare la terza via blairiana al posto della blanda socialdemocrazia post Pci, è arrivato a dire che «riformismo non significa più imbrigliare il capitalismo sulla base delle esigenze sociali, ma imbrigliare le esigenze sociali sulla base del capitalismo».

[N.B. Per quanto possa sembrare buffo, D’Alema è ancora molto ascoltato all’interno del Pd, anche perché è uno dei pochi che, malgrado tutto, continuano a capire qualcosa di politica. Per esempio l’idea del Conte progressista, cronache alla mano, era la sua. E ha funzionato, anche se adesso il leader del Movimento Cinque Stelle appare sul punto di divorare i dem: bell’affare, non è vero? Ma la politica è arte del possibile, quindi chissà che non riesca pure l’impossibile]

Ovviamente, però, la discussione sulla necessità di rivedere le posizioni del partito in materia di costruzione della nuova società si sta trasformando in una via di mezzo tra un film di Lynch e un cinepanettone. Abbiamo chi cita Lenin (la giovane Caterina Cerroni), chi se la prende con i cento saggi incaricati di riscrivere la carta dei valori (il mitologico cattolico Pier Luigi Castagnetti), chi minaccia di andare via se la linea dovesse spostarsi troppo a sinistra (il sindaco di Bergamo Giorgio Gori), chi sostiene che sia tutto fumo e niente arrosto (la rediviva Rosy Bindi), chi ormai non crede più a niente e vuole solo vedere il mondo bruciare (quasi tutti i tesserati al partito, la famosa base, che in privato si sfogano parlando dei propri dirigenti come non hanno mai parlato nemmeno di Berlusconi).

E così siamo al solito giorno della marmotta. Il Pd ha una pelle elettorale durissima: benché non abbia mai vinto un’elezione, alzi la mano chi avrebbe scommesso anche solo un euro sul fatto che un accrocchio improponibile come questo continui a veleggiare tra il 15 e il 20% nei sondaggi. Allo stesso tempo le svolte congressuali sono al più sogni di gloria. Anche qui, anche ora: da una parte avremo il pragmatismo di Bonaccini, una linea priva di slanci ideali e di grandi idee sul futuro, ma solidamente ancorata all’amministrazione dell’esistente senza volontà di cambiarlo davvero. Dall’altra avremo Schlein, generale senza esercito che piace alla gente che piace, rappresenta la speranza di rinascita di una sinistra purché sia, ma forse priva di reale consistenza politica.

E così, se Bonaccini – che ha fatto tutta la trafila di partito da segretario di sezione in avanti – è la destra del partito, Schlein sostiene che non può essere comunista perché è nata nel 1985, qualsiasi cosa voglia dire. Uno scontro tra figure opposte eppure vicinissime (del resto, in Emilia Romagna, uno è governatore e l’altra è la sua vice), imitazioni di una dirigenza che non c’è più, figure che animano le fantasie perché solo lì possono esistere: la realtà, a conti fatti, è sempre un’altra storia.

E vaglielo a spiegare che il comunismo italiano non è stato solo il Pci. E che il Pci non è stato solo Berlinguer. Il problema è molto più profondo: senza le basi, non esistono le altezze.