La storia di Oussama Ben Rebha, annegato per sfuggire agli agenti | Rolling Stone Italia
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La storia di Oussama Ben Rebha, annegato per sfuggire agli agenti

Domani a Padova si terrà una manifestazione in ricordo del giovane 23enne di origine tunisina, annegato nel Brenta lo scorso 10 gennaio dopo un controllo di polizia. L’ennesimo fatto di cronaca che dimostra come, nel nostro Paese, ci sia chi può muoversi libero dalla paura e chi no

La storia di Oussama Ben Rebha, annegato per sfuggire agli agenti

Oussama Ben Rebha

Foto: Facebook

Il pomeriggio del 10 gennaio 2023 durante un controllo di polizia Oussama Ben Rebha, 23enne di origine tunisina arrivato da poco in Italia, è morto annegato nel Brenta, all’altezza di via Querini a Pontevigodarzere (Padova). Secondo quanto dichiarato dalla Questura il giovane avrebbe opposto resistenza e si sarebbe buttato nelle acque gelide del fiume per sottrarsi agli agenti. Il corpo di Oussama è stato recuperato dai sommozzatori dei vigili del fuoco la mattina successiva.

Le circostanze della sua morte ricordano quelle di Fares Shgater e Khadim Khole, annegati entrambi tra aprile e giugno del 2021. Fares, di nazionalità tunisina come Oussama, aveva 25 anni e si trovava in Italia da soli sei mesi quando è stato fermato dalle forze dell’ordine, e poco dopo ha perso la vita nella Fossa Reale di Livorno. Anche Khadim, 24enne di origine senegalese nato e cresciuto in provincia di Padova, è morto nel Brenta per sfuggire all’inseguimento della polizia dopo un furto in un minimarket.

Domani si terrà a Padova una manifestazione nazionale per chiedere “Verità e giustizia per Oussama e per tutte le vittime del razzismo istituzionale”. Il corteo voluto dai familiari del giovane e dal Coordinamento Antirazzista Italiano (CAI) partirà alle 14:00 dal piazzale della stazione ferroviaria.

“Non vogliamo entrare nel merito delle indagini che sono in via di svolgimento”, hanno dichiarato gli attivisti e le attiviste del Coordinamento alla conferenza stampa del 26 gennaio svoltasi simbolicamente lungo l’argine del fiume. “Indipendentemente dalla dinamica, ciò che è vero, ciò che viene osservato quotidianamente e affermato da istituzioni come l’Agenzia dell’Unione europea per i diritti fondamentali, è che esiste un fenomeno di profilazione razziale, che le persone viste come straniere vengono continuamente prese di mira dalle forze dell’ordine. Perché l’ordine nello stato nazione è sempre anche un ordine razziale. Ed è di profilazione razziale che stiamo parlando”.

Come spiega a Rolling Stone l’attivista Mackda Ghebremariam Tesfaù “è un tema di cui non si parla, nonostante le poche fonti che abbiamo mostrino che l’Italia è uno dei paesi in Europa in cui i fermi della polizia avvengono più frequentemente proprio per questioni di profilazione razziale. Si tratta di una pratica assolutamente violenta di riproduzione di un’esclusione simbolica e materiale. È un continuo ricordare a determinate persone che portano certe caratteristiche che sono ‘eccedenti’ e che in qualche modo il potere su di loro si agisce in maniera ancora più arbitraria”.

Il Coordinamento Antirazzista Italiano denuncia un “crescente clima di razzismo nel paese” e sottolinea che “il caso di Oussama, cittadino tunisino sprovvisto di titolo di soggiorno, ci racconta di un Paese dove l’ingiustizia, la marginalità sociale e il razzismo istituzionale producono morte”. E gli esempi purtroppo non mancano, a partire dal caso del 27enne Issaka Coulibaly, richiedente asilo a cui è stato negato il permesso di soggiorno, morto in un edificio abbandonato a Milano lo scorso novembre.

Un altro episodio segnalato dalla rete antirazzista è la “condizione di discriminazione vista anche davanti gli uffici immigrazione di Milano quando lunedì 23 gennaio, la polizia in assetto antisommossa è ricorsa all’utilizzo di lacrimogeni per disperdere i richiedenti asilo in fila dalla notte precedente, moltissimi dei quali dormono per strada. Un trattamento iniquo e diverso da quello riservato ai rifugiati dall’Ucraina per i quali il governo ha predisposto procedure accelerate e un piano straordinario per l’accoglienza”.

“Oussama era una vittima di fatto del regime dei nostri confini”, ribadisce Ghebremariam Tesfaù. “Era sposato con una donna di cittadinanza francese che aveva potuto raggiungere con il figlio la Francia senza problemi, mentre lui invece era stato costretto a raggiungere la famiglia attraverso la rotta balcanica. E già questo ci dice qualcosa rispetto al fatto che alcuni corpi e alcuni documenti producono una sicurezza che altri corpi, con altri documenti, non hanno. Per questa ragione noi, come Coordinamento Antirazzista Italiano, abbiamo indetto la manifestazione del 28 per sostenere la famiglia di Oussama e chiedere che si faccia chiarezza su questa storia, ma soprattutto per denunciare il fatto che a prescindere da quello che è successo stiamo parlando di un’ennesima vita che è stata interrotta dal sistema razzista che ci circonda. Una morte che va letta in continuità con quelle nei CPR (Centri di Permanenza per il Rimpatrio) e tutte le altre che scaturiscono da questo sistema fatto di confini differenziali”.

Solo nella struttura di Torino si sono contati 26 tentativi di suicidi tra ottobre e novembre del 2021, ricorda il Coordinamento nel suo comunicato stampa. Il tema politico della detenzione senza reato nei CPR, in quelli che vengono definiti dei veri e propri “buchi neri”, ha un ruolo centrale nella vicenda di Oussama. “Se una persona senza documenti viene profilata, fermata e pur di non essere infilata in un CPR e rimpatriata arriva a rischiare la vita in questo modo siamo già di fronte a una giustizia totale e all’azione visibile di un sistema razziale”, afferma Ghebremariam Tesfaù.

“Quello che è innegabile è che le vite costrette alla marginalità da un sistema dei confini iniquo, dall’impossibilità della regolarizzazione, dallo stigma sociale, sono spesso costrette a vivere di espedienti. Che quando questo accade esse costituiscono comunque la base sacrificabile di un sistema che porta ricchezza altrove. Perché la stessa foga, la stessa energia che viene impiegata nel braccare queste persone non è impiegata nell’individuare i vertici di questo sistema?”, si domandano gli attivisti e le attiviste.

L’obiettivo delle realtà antirazziste che hanno promosso o aderito alla manifestazione del 28 gennaio è sempre lo stesso: contrastare il silenzio che puntualmente cala su storie come quella di Oussama, soffocandole e rendendole di fatto invisibili. “Un silenzio che ci ricorda che certe vite valgono meno. Che sopravvivere con i mezzi a propria disposizione in assenza di alternative è considerata una colpa imperdonabile, rispetto alla quale la morte diventa solo una tragica fatalità, quando non una punizione meritata”, evidenzia il Coordinamento. Un copione già visto con Moussa Balde, Alika Ogorchukwu, Abdul Guibre, Seid Visin, Sandrine Bakayoko e tante altre persone razzializzate morte in circostanze diverse, ma all’interno di una società che ancora oggi si rifiuta di fare i conti con gli effetti a volte fatali del razzismo strutturale e quotidiano.


La richiesta di verità e giustizia per Oussama Ben Rebha serve anche a mettere in discussione un’asfittica e profondamente ingiusta narrazione securitaria dai toni spesso colpevolizzanti. “Invece di fermarsi per essere identificato ha scelto la strada più difficile e pericolosa… Non è dato sapere il perché la vittima abbia deciso di gettarsi in acqua pur di evitare il controllo”. Queste due frasi apparse sulla stampa locale raccontano bene l’enorme distanza tra chi è chiamato a descrivere ciò che accade e chi vive sulla propria pelle il razzismo istituzionale, la violenza dei confini e la criminalizzazione della precarietà.