La lezione anticlassista di ‘Super Mario’ | Rolling Stone Italia
Eroi idraulici

La lezione anticlassista di ‘Super Mario’

La serie di videogiochi inaugurata da Shigeru Miyamoto è un’apologia verso chi la società contemporanea vorrebbe marginalizzare come “umile”: ecco perché non ci stancheremo mai di giocarci. A poche settimane dall'uscita del film, un'analisi politica del platform più famoso di sempre

La lezione anticlassista di ‘Super Mario’

Foto di Stanislav Kogiku/SOPA Images/LightRocket via Getty Images

Cosa potrebbe pensare Mario quando trascorre sull’orlo dell’abisso? Fissando il baratro che lo separa dalla prossima piattaforma, durante i secondi pesanti d’urgenza che precedono il salto nel vuoto.

Egli non rifletterà certo come il filosofo tedesco a proposito dei mostri che dall’abisso lo guardano e neppure temerà che questi a loro vota lo scrutino, invitandolo a far parte della loro mostruosità, anche perché i mostri Mario ce li ha davanti. L’eroico idraulico non si può concedere meditazioni romantiche sulla coincidenza tra panorama e sentimento o farsi cogliere da un desiderio fatale di dissoluzione nel vuoto, ma lo muoverà invece la necessità, un’ispirazione concreta e istintiva, un senso del dovere dal quale egli non si è mai emancipato perché questo è connesso nel profondo alla sua etica di lavoratore.

Può immaginare le meditazioni di Mario chi lo controlla, il suo “occhio della mente”, il giocatore che dimesso il ruolo di un distaccato burattinaio agisce in una sincronia pragmatica con il personaggio, in una condivisione d’intenti precisa, un fenomeno naturale perché per entrambi l’obiettivo è lo stesso: superare il baratro e infine il livello, andare oltre, abisso dopo abisso.

Chi gioca è abituato a condividere la psiche artificiale di invenzioni complesse, al dialogo emotivo con coscienze fittizie gravate da traumi, sensi di colpa o follia. Con Mario si instaura invece un rapporto non mediato e immediato che non è tuttavia superficiale, come non sono superficiali le sue motivazioni avventurose; nell’illusoria semplicità della sua mente virtuale non solo l’eroe baffuto ci accoglie in “sé stesso” con generosa subitaneità, ma al contempo ci libera da ogni gravità di pensiero, ci occupa la mente con la schiettezza della sua volontà in un gioco di ruolo biunivoco che ha la potenza liberatoria di uno scacciapensieri costruito da un liutaio magistrale. D’altronde giocando con Mario non è raro pensare di “suonare”, complice la coincidenza tra suoni e azione, una cosa che in lingua inglese in fondo sarebbe la stessa: “to play”.

Che Super Mario ci induca quindi (a prescindere dall’età di chi lo controlla o si fa controllare, perché la sua grazia ludica è universale) a una momentanea negazione di ogni gravità, catturati dalla sua chiara semplicità di obiettivi e astraendoci con una non rara necessità di virtuosismo, è una delle motivazioni del suo longevo e sempre travolgente successo, ribadito in questi giorni al cinema con un film che parrebbe una deliziosa burletta non fosse anche così teorico sulle geometrie che traducono lo spazio ludico dei suoi videogiochi.

Ma ci sono altri motivi per cui Mario e il suo sempre troppo poco citato fratello Luigi sono delle stelle, icone che hanno dimostrato di trascendere il loro medium o di identificarlo come nessun’altra. E non va dimenticata la principessa Peach, troppo spesso equivocata come “damigella in difficoltà” ma che già nell’onirico e bellissimo Super Mario Bros 2 (1987) dimostra le sue eccellenti super-qualità ribadite anche nella serie Mario Kart e nei picchiaduro Super Smash Bros, una figura che in tanti giochi dell’idraulico è rosea fonte d’ispirazione nobile ma non aristocratica, una motivatrice dell’azione, quasi una “Laura” o una “Beatrice” non defunta ma viva e pimpante.

Mario e suo fratello sono due operai, sebbene all’inizio del film si riveli che entrambi mirino a fondare un’impresa per emanciparsi dallo sfruttamento di un capo. In quarant’anni di giochi i fratelli sono sottoposti (e ci sottopongono) a spossanti e spassosi “turni lavorativi” per salvare il mondo senza che da ciò risulti un loro avanzamento di classe, perché a loro non importa. Mario e Luigi non diventeranno mai i principi o i re di Fungolandia, si beano di essere eroi del popolo come parte integrante del popolo in un’affermazione squisitamente anticlassista, non dipendono da nessuno, quando possono oziano.

Forse i fratelli si sono arricchiti a furia di raggranellare monete, ma non sembra, almeno guardando all’umile casetta in cui vivono lungi dalle mura del castello, piccolo edificio che si intuisce in qualcuno dei loro innumerevoli videogame. Non è un caso che Hideo Kojima faccia citare Mario da Sam Porter Bridges, il protagonista del suo straordinario Death Stranding, un altro eroe operaio, un corriere o un “rider”, una categoria che questo maestro del videogioco sublima nella sua importanza sociale e ideale di lavoratori oggi sottopagati, mal considerati e sfruttati.

Mario non fa propriamente l’idraulico nei suoi giochi, sebbene sia evidente la sua perizia con i tubi, ma il suo atteggiamento verso l’avventura non è da eroe guerriero e neppure lontanamente da milite, poiché agisce con il puro, dignitoso intento di portare a termine un lavoro che gli compete e per questo ritiene giusto fare. Si coglie luminosa nel personaggio di Mario un’apologia verso chi la società contemporanea vorrebbe marginalizzare come “umile”, un’esaltazione di un popolo inteso di nuovo come massa anonima di lavoratori funzionali che ha lo splendore polemico, rivoluzionario e illuminista del Figaro barbiere di Beaumarchais e che oggi, con il ritorno di sfruttamenti “medievali”, ha un grande valore politico. Tra i tanti “super” attribuiti agli eroi dell’immaginario contemporaneo, forse è proprio Mario a meritarlo di più, per la sua umanità mai trascesa, al limite alterata momentaneamente da qualche strano fungo.

Tutti “bellissimi” gli eroi contemporanei, almeno secondo canoni ancora ellenici. Mario e Luigi, osservati attraverso le vetuste categorie della rappresentazione sono quindi tutt’altro che “belli”, una caricatura giapponese del maschio italiano, qualcuno vi ha visto con malignità. Invece non sembra esserci alcuna malevolenza nella pittura degli idraulici, anzi vi si può leggere la ricerca di un nuovo canone estetico che sfidi le convenzioni, che demolisca la prassi che l’eroe debba avere il corpo di una statua greca, o che solo tramite uno splendore superato delle forme fisiche si manifesti il valore, la prodezza.

Il successo sempre crescente di Mario, oltre che alla ricchezza del suo immaginario favoloso e alla sempre sorprendente profondità dei suoi videogiochi, è dovuto anche al suo apparire discreto, comune, non trasfigurato o idealizzato. C’è tenerezza nel sembiante di Mario e nessuna durezza, qualcosa di amabile e di riconoscibile che trascende persino la sua baffuta virilità, concedendogli la rassicurante asessualità di un bambolotto di peluche. Eppure questa dolce, prima inconcepibile (avreste mai immaginato di vedere dormire dei bambini abbracciando il pupazzo di un ometto peloso vestito da operaio?) superficie di giocosa amorevolezza esprime un’umanità intesa nella sua più alta accezione, trascendendo forme imposte da secoli di estetiche occidentali. Un altro abisso delle convenzioni che Mario ha valicato con il suo eroismo operaio.