La candidatura alle europee di Ilaria Salis ci obbliga a confrontarci con i peggiori giudici: noi stessi | Rolling Stone Italia
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La candidatura alle europee di Ilaria Salis ci obbliga a confrontarci con i peggiori giudici: noi stessi

L'annuncio della candidatura per Alleanza Verdi Sinistra chiama in causa temi che preferiamo dimenticarci, come la situazione delle carceri italiane. Mentre sia la destra che la sinistra cercano di sfruttare l'occasione per chiamare alla scelta di campo

La candidatura alle europee di Ilaria Salis ci obbliga a confrontarci con i peggiori giudici: noi stessi

Ilaria Salis a processo in Ungheria

Foto da Tg3

Alla fine non è stato con il PD, che pure aveva dato la propria disponibilità, ma con l’alleanza tra Verdi e Sinistra Italiana. Fatto sta che Ilaria Salis si candida davvero alle elezioni europee di giugno, dopo un accordo tra i leader due partiti, Angelo Bonelli e Nicola Fratoianni, e il padre dell’attivista (e antifascista) detenuta in Ungheria. In attesa di un processo che, per dirla à la CCCP, «non so se verrà, ma non credo che venga». La storia è nota: arrestata dalle autorità del posto dopo alcuni scontri con dei neonazisti durante una loro adunata commemorativa (il suo coinvolgimento nelle azioni più violente è ancora da dimostrare), da 14 mesi è «sepolta viva» in un carcere di Budapest che, in base ai suoi resoconti (e non solo), somiglia a un lager, trattamento che già l’UE aveva condannato. Sembra che il governo di Orbán non abbia granché a cuore i suoi detenuti, tranne nel caso si tratti di estremisti di destra: in quella circostanza, mantiene un certo riguardo. Ma tant’è.

L’elezione risolverebbe gli aspetti più impellenti della faccenda: Salis sarebbe libera non appena eletta. L’Ungheria potrebbe chiedere un nuovo arresto, sì, ma prima di procedere andrebbe messo ai voti in aula a Strasburgo. Come ha spiegato il padre di lei, «non è una fuga»: verrebbe lo stesso giudicata, ma intanto non dovrebbe trascorrere quest’attesa infinita in un carcere ai limiti della dignità umana. Una richiesta, insomma, simile a quella – finora legata – di accedere ai domiciliari. Per Bonelli e Fratoianni, l’idea da proclama è di «generare una grande e generosa battaglia affinché l’Unione Europea difenda i principi dello Stato di Diritto e riaffermi l’inviolabilità dei diritti umani fondamentali su tutto il suo territorio e in ognuno degli stati membri», nonché di «tutelare i diritti e la dignità di una cittadina europea, anche dall’inerzia delle autorità italiane per ottenere una rapida scarcerazione in favore degli arresti domiciliari negati con l’ultima decisione dai giudici ungheresi».

Non è la prima volta che la politica fa così. Negli anni Ottanta, per esempio, i Radicali di Pannella candidarono Toni Negri, professore universitario accusato di essere uno dei «cattivi maestri» della lotta armata di sinistra dell’epoca, anche lui in attesa di giudizio in carcere per un lungo processo con più di qualche stortura. La figura di Negri era infinitamente più divisiva di quella di Salis. Alla fine venne eletto e non finì bene, ma in situazioni del genere è comunque sempre delicato bilanciare gli interessi di tutte le parti in causa, anche a livello d’immagine e di opinione pubblica.

Da una parte, ciò che dicono Bonelli e Fratoianni è vero e nobile. Candidare Salis è un gesto che ha un forte impatto comunicativo, porterebbe all’attenzione dei vertici dell’Unione la sua storia (non che già non ci sia, ma diventerebbe più urgente, specie se poi si dovesse votare a Strasburgo per un suo eventuale secondo arresto). La sua vicenda ha una portata simbolica ampia, e aiuterebbe a discutere della situazione dell’Ungheria e delle carceri dell’Occidente, Italia compresa, che non può dare chissà quali lezioni. In più, si risolverebbe la situazione spinosa della sua detenzione senza fine, a cui la diplomazia finora non ha trovato un rimedio.

Dall’altro lato non mancano facce più in ombra, come quella, banalmente, del voto: se da una parte è difficile immaginare qualcuno che abbia a cuore la sua storia ma non sia disposto a votare Alleanza Sinistra Verdi, dall’altra può essere una mossa – e i voti, si sa, contano – per catalizzare sui due partiti le preferenze di chi vorrebbe Salis libera, ma magari in cabina elettorale preferirebbe fare altre scelte. Non la stanno usando, ecco, ma le contraddizioni ci sono comunque.

Passiamo a destra. Meloni ha ovviamente detto che è sbagliato «politicizzare» la situazione, ma parla dal proprio punto di vista. Campagne elettorali e mediatiche di questo tipo non fanno altri che esacerbare gli animi, è vero, e ovviamente ci sarà chi giocoforza finirà per costruire altre barricate contro Salis. Dall’altra parte, la condanna della Premier è un tentativo per mantenere i propri equilibri e salvare la faccia, visto che sia lei e sia il Ministro degli Esteri, Tajani, da mesi trattano con Orbán per la scarcerazione. Cioè, almeno dicono.

Il padre di Salis ha infatti sempre negato di aver avuto sostegno da parte loro, se si escludono delle dichiarazioni pubbliche vaghe, piene di distinguo e contraddittorie. Ammesso che lo stiano facendo davvero, bilanciando le adempienze previste dal loro ruolo istituzionale che ricoprono con l’indifferenza (ehm) dei loro partiti, questa candidatura li metterebbe in difficoltà con l’amico e alleato internazionale Orbán, rendendo ancor più ostica la trattativa. Ma per la famiglia di Salis, per esempio, questo sarebbe nel frattempo un modo per “scavalcare” queste dinamiche, e non affidarsi in più ai soliti interlocutori.

Certo, l’eventualità tirata in ballo da Meloni esiste, e la mossa è comunque una forzatura, un rischio. Se Salis non venisse eletta, infatti, il gioco dell’oca prevedrebbe di tornare alla casella iniziale, e con intorno l’ostilità dell’Ungheria e della destra italiana. E la possibilità esiste eccome: non è detto che la chiamata alle armi di Bonelli e Fratoianni possa funzionare, e ok. Ma soprattutto, in Italia c’è una fascia di persone – che si rivede nelle dichiarazioni di Salvini, che piuttosto che concentrarsi sulle condizioni in cui è detenuta la accusa di essere un’insegnante (suo mestiere) «violenta», a cui non lascerebbe i suoi figli – che la odia e ci si accanisce sopra, allergica alla parola “antifascista”. Questa fascia è convinta che se uno di “loro” (quelli come Salis) si trova in prigione un motivo ci sarà pure, e allora tanto meglio buttare la chiave. In più, c’è disinteresse nei confronti delle situazione dei detenuti a prescindere, la cui salvaguardia è di fatto sparita dai programmi dei grandi partiti.

Ecco, in questo senso candidare Salis è comunque una scelta forte, perché costruisce un filo diretto con noi, gli elettori. Stavolta non abbiamo scuse: fosse anche solo per votare contro o perlomeno rifletterci su, siamo comunque chiamati a fare i conti con ciò che succede nelle carceri europee, e con il fatto che vanno tutelati i diritti anche dei detenuti con cui non si va d’accordo. Sembra scontato, ma in tempi di Salvini giustizialisti e stati di diritto fatti di cartone, non è poco. Al di là di se e come finirà questa storia, per noi e per lei.

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