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Ilaria Alpi non è stata solo una martire del giornalismo

Il ricordo affettuoso di tutti, e un doveroso tributo in Parlamento oggi, a 30 anni dalla morte. Ma, al di là del simbolo che è diventata, sulla giornalista del Tg3 uccisa in Somalia insieme al suo operatore non è mai stata davvero fatta luce. Forse perché è, ancora adesso, una storia troppo scomoda?

Foto da RaiPlay

C’è una disciplina in cui l’Italia – come altri Paesi, va detto, ma noi siamo in prima linea – è davvero un’eccellenza, ed è insabbiare: alimentare, nascondere e custodire segreti di Stato, imbastire processi che non portano a niente, fare auto-sabotaggio nei confronti della verità, rispondere alle prove con controprove, depistaggi e altro.

Non serve tornare agli Anni di Piombo, al Golpe Borghese o a Emanuela Orlandi; basta la storia, più piccola ma indicativa, e soprattutto recente, di Ilaria Alpi, la giornalista del Tg3 uccisa il 20 marzo 1994, trent’anni fa, in un agguato in Somalia con il suo operatore Miran Hrovatin. Aveva 33 anni e una carriera ben avviata in Rai, e suo malgrado è diventata un modello per chiunque faccia informazione fino a rischiare la vita. C’è un premio giornalistico in merito, per esempio. All’epoca la notizia sconvolse tante persone, nel tempo la sua è diventata un’immagine “di casa”. Come qualcuno che si ha cuore. Oggi, per dire, la Camera ricorderà lei e Hrovatin, perché – parola di La Russa – «appartengono al novero di coloro che per garantire il diritto alla informazione e alla libertà hanno dato la vita». Come sempre: tutti addolorati, tutti innocenti.

Ora: è scontato dire che un giornalista non dovrebbe perdere la vita facendo il suo lavoro, così come è normale che la gente comune ci si affezioni e si senta ferita anche lei da un fatto del genere; ma a maggior ragione, raccontare Alpi solo come martire della professione significa descrivere una parte di realtà. Il fatto che la famiglia abbia chiesto a lungo e da subito verità e non l’ha mai ricevuta, pur passando per la democrazia dello Stato italiano prima che per le dinamiche di una Somalia all’epoca in guerra civile, e che magari può non essere una garanzia di trasparenza, la dice lunga e rende questa storia una di quelle che va oltre, fino a stare sulla coscienza dell’Italia stessa, a far pensare a un nostro coinvolgimento diretto nella scomparsa e soprattutto nell’impossibilità di darle giustizia. Altro che ricordi commossi, guerriglieri barbari, Italia in lutto e giornalisti indefessi; altro che tutti innocenti.

Alpi, è noto, era in Somalia come inviata della Rai da due anni, aveva vinto il concorso per entrare a via Mazzini e da giù, anche grazie al fatto che conosceva l’arabo, il francese e l’inglese, seguiva l’operazione Restore Hope, l’intervento militare delle Nazioni Unite per «riportare la speranza» in un paese dilaniato dal conflitto armato scattato dopo la morte dello storico dittatore Siad Barre, nel 1991. Ovviamente fu un’operazione con molte zone d’ombra, come lo era anche il rapporto dello stesso Barre con l’Italia – eravamo stati, diciamo, compagni di merende per tutti gli anni Ottanta, anche se n’era parlato pochino. Partendo da queste basi, Alpi stava indagando un traffico di armi e soprattutto rifiuti tossici in cui sarebbero stati coinvolti anche i servizi segreti italiani: in cambio di tangenti e di armamenti per i gruppi politici locali, l’Occidente scaricava in Somalia le sue scorie. Al ritorno da un’intervista che secondo alcune ricostruzioni avrebbe potuto dare una chiave di volta a tutto, fu uccisa in un agguato vicino all’ambasciata italiana, in una serie di circostanze mai chiarite.

Come nei misteri di cui, di nuovo, siamo decani, ciclicamente qua e là spuntano testimonianze che dicono tutto e il suo contrario, ma che comunque non hanno che aggravato la posizione dell’Italia. Oggi per esempio su La Stampa c’è Yahya Amir, professore somalo esperto d’intrighi del suo Paese e coinvolto nella scomparsa di Alpi, che dice che il nostro diplomatico Giuseppe Cassini gli offrì «sessantamila dollari per incolpare Hashi». La tesi è in parte già nota: «Hashi» sarebbe Hashi Omar Hassan, l’unico del commando di sette persone che assaltò lei e Hrovatin a venire riconosciuto e condannato in Italia dopo un processo che aveva fatto acqua in più occasioni, grazie alle rivelazioni di due testimoni. Non fosse che nel 2016, dopo sedici anni di prigione, un’inchiesta di Chi l’ha visto? ha dimostrato la sua innocenza: in sostanza, l’Italia aveva fatto pressioni per trovare un capro espiatorio e chiudere in fretta il caso, comprandosi i testimoni. Di nuovo libero, sarà ucciso a sua volta in un agguato sempre in Somalia nel 2022.

Si sa che Mogadiscio non è un posto tranquillo, così come non lo era nel 1994; ma al di là dei complotti, sono le coincidenze, la puzza di bruciato, l’atteggiamento ambiguo e reticente dell’Italia – tutt’ora c’è un processo in corso, ma non se ne sa niente, non ci sono risultati – a far pensare a un segreto di Stato. C’è anche una commissione parlamentare d’inchiesta; pure quella, ovviamente, ristagna.

Sul fondo, oltre al senso d’ingiustizia e di frustrazione per una verità evidentemente impossibile da trovare, resta il dramma privato della famiglia, i suoi genitori sfiancati e frustrati prima di tutto dall’ostilità delle nostre autorità e dalle continue richieste d’archiviazione dei giudici, che ai processi hanno chiamato chiunque, con piste che hanno portato dovunque, sempre senza risultati. Resta questo, allora, e il solito renderle omaggio da parte di uno Stato che, celebrandola come esempio virtuoso, vorrebbe sentirsi migliore, e invece si ritrova tra le mani una storia che non fa che renderlo peggiore. Se non altro, per non essere stato capace di trovare la verità.

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