Il ritorno di Beppe Grillo non fa ridere (e non ha molto senso) | Rolling Stone Italia
Brigate e passamontagna

Il ritorno di Beppe Grillo non fa ridere (e non ha molto senso)

Sette giorni dopo la morte di Silvio Berlusconi, Grillo sembra già un arnese di altri tempi: il vecchio zio che ai pranzi di famiglia si lascia parlare a prescindere, perché interromperlo vorrebbe dire rovinare la festa a tutti

Beppe Grillo, foto Niccolò Caranti

Beppe Grillo, foto Niccolò Caranti

Che Beppe Grillo sarebbe intervenuto durante la manifestazione del Movimento 5 Stelle contro il precariato non lo aveva previsto nessuno. E pochissimi – forse nessuno – sapevano che si sarebbe presentato in piazza a Roma, nel giorno in cui tutti gli occhi erano puntati sulla saldatura – possibile, probabile, auspicata, odiata a seconda del punto di osservazione – tra Giuseppe Conte e Elly Schlein.

Grillo ha oscurato questo passaggio con un discorso a tratti surreale e a tratti serissimo, in un pasticcio che, malgrado gli sforzi, non ha fatto molto ridere né ha lasciato granché di concreto all’elaborazione politica del M5s.

Le agenzie di stampa, i giornali e la minoranza del Pd hanno concentrato la loro attenzione sul passaggio in cui il comico genovese evocava la costituzione di «brigate di cittadinanza» con passamontagna in testa per fare i lavoretti nelle città: potare le aiuole, riparare le buche sull’asfalto, eccetera eccetera. Le parole «brigate» e «passamontagna» hanno offerto una sponda sin troppo facile per far parlare i soliti di «piazza estremista» capace solo di esprimere concetti aberranti e irricevibili per la nostra democrazia. È così che il già candidato del Pd alla presidenza della Regione Lazio Alessio D’Amato ha dato il suo addio alla direzione del partito (dicono che abbia un mezzo accordo con Calenda in vista delle europee e che abbia colto l’occasione per buttarla in cagnara).

Va da sé che la questione delle brigate e dei passamontagna è da far rientrare nella categoria delle battute di Grillo, nulla di troppo dissimile dai toni che lui usa da ormai quattro decenni, e che le polemiche servono solo a colpire Schlein e Conte.

La chiave di lettura è tutta qui: l’alleanza tra Pd e M5s è un percorso a ostacoli per più motivi. Non solo le difficoltà oggettive di mettere in piedi una coalizione, ma anche l’assalto continuo delle varie fronde liberal – elettoralmente misere ma sempre in evidenza sui giornali e in televisione – che non perdono mai mezza occasione per dire che questo matrimonio non s’ha da fare. Grillo tutto questo lo sa e conosce benissimo anche i meccanismi del tritacarne mediatico, dunque puntare sull’innocenza della battuta potrebbe essere un’ingenuità, nonostante tutto. E a poco vale la rettifica del giorno dopo – «Era una boutade!» -, anche perché tutti sanno che correggersi significa solo ripetere il concetto già espresso.

Il resto del discorso è un minestrone di elementi vari e variamente impresentabili, dal voto ponderato per gli anziani (meno aspettativa di vita hai e meno conta il tuo voto) all’invito rivolto ai territori di partecipare al dibattito interno al Movimento con proposte che «prima o poi Conte capirà», tanto per sottolineare la considerazione che il fondatore ha dell’attuale leader. E poi, in ordine sparso: intelligenza artificiale, automazione, nuovi modelli economici più o meno realistici.

Qualcosa d’interessante – mutuato dal dibattito internazionale sul futuro del mondo del lavoro – c’era pure, ma in un contesto del genere è impossibile distinguere il discorso serio dalla battuta, dunque tutto diventa intrattenimento. E il problema, a questo punto, è semplice: quello che fa Grillo non è più intrattenimento di livello. I tempi dei comizi spettacolo sono finiti, non c’è più traccia della potenza debordante che dieci anni fa cambiò le coordinate della politica italiana, persino la verve non più quella degli anni belli. La verità, sul punto, l’aveva detta Daniele Luttazzi dopo il primo Vaffanculo Day, nel 2007: «Quando ascolta Grillo la gente non applaude i concetti, applaude la foga». E la foga però non c’è.

Sette giorni dopo la morte di Silvio Berlusconi, cioè dell’inventore della politica delle sparate separate dai fatti e delle battute in sostituzione della dialettica politica, Grillo sembra però già un arnese di altri tempi, il vecchio zio che ai pranzi di famiglia si lascia parlare perché interromperlo vorrebbe dire rovinare la festa a tutti ma che nessuno ascolta davvero. Solo che la politica non è un pranzo di famiglia, e un sospiro ci mette un attimo a diventare un uragano.

E allora Conte torna a casa con la legittimazione di una piazza accorsa per lui – e che si sarebbe accontentata di lui se non ci fosse stato Grillo – ma con il problema non piccolo di essere un leader a metà, sempre costretto a fare i conti con il fondatore, proprietario, guida spirituale del Movimento Cinque Stelle. Schlein, invece, si trova a dover fare i conti con la sua minoranza interna, che vede (forse non del tutto a torto) i grillini come una manifestazione del male in politica e considera malsana l’idea di un’alleanza. Il fatto è che, con ogni probabilità, il famoso popolo delle primarie ha votato Schlein proprio perché, alla fine, questa alleanza si faccia.
Poi c’è il contorno, ovvero la battuta sulle brigate e il passamontagna. Siamo d’accordo sul fatto che non passerà alla storia come un classico della risata, ma evocare il terrorismo appare francamente eccessivo. Cioè, se Grillo è un problema per la democrazia, che dire di un governo che definisce le tasse come «pizzo di Stato»?