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Il canto del cigno dell’odiatissimo Fazio è stato un successo

Gli applausi, gli occhi commossi, Sir Anthony Hopkins, il "Bello ciao", le stoccate a Meloni, addirittura lo scoop su Spalletti e il Napoli: l'ultima puntata di 'Che tempo che fa' ha chiuso un capitolo ventennale del servizio pubblico nel migliore dei modi

Foto via Getty

E insomma, ci siamo: da oggi lo spettatore televisivo nostrano dovrà compiere uno sforzo di immaginazione impronosticabile e abituarsi a una Rai senza Fabio Fazio. Piaccia o meno, l’ultima puntata di Che tempo che fa (andata in onda ieri) ha chiuso un capitolo ventennale di servizio pubblico.

Un capitolo importantissimo che, è doveroso sottolinearlo, in pochi potranno sognare di ripetere.

Nel corso del tempo il conduttore di Che tempo che fa è stato il bersaglio di una specie di sassaiola mediatica, foraggiata da una platea sempre pronta a cogliere ogni occasione possibile per distruggere il suo operato e, quando possibile, mettere in campo ogni strategia utile a soffiare sulla rabbia degli haters – la più famosa delle quali è quella di sbattere in prima pagina i suoi “eccessivi compensi” con toni enfatici e polemici, ormai un classicone della cronachetta da quattro soldi nostrana che siamo costretti a subire passivamente ogni anno.

Ovviamente, a un occhio moderato e non di parte, questa crociata anti–Fazio è sempre apparsa insensata. Basta prendere in considerazione due elementi scontatissimi come i ricavi pubblicitari del programma (una manna dal cielo per la televisione pubblica) e la qualità degli ospiti coinvolti per rendersi conto che, ebbene sì, quel sempliciotto incravattato il suo lavoro sa farlo e come.

La ricerca costante di quel compromesso di “gusto medio” tra il nazionalpopolare e il colto è una formula ideale per un programma che ha la pretesa di parlare a chiunque.

Tanto per dare un’idea, dal suo approdo a Viale Mazzini a oggi, Fazio ha portato sulla televisione pubblica Michail Gorbačëv, Al Gore, Tony Blair, Barack Obama, Bill Gates e Papa Francesco.

Parliamo, nell’ordine, del protagonista nella catena di eventi che portarono alla dissoluzione dell’URSS e alla riunificazione della Germania, del candidato democratico che ha portato all’attenzione pubblica il cambiamento climatico before it was cool, della personalità politica britannica più influente degli ultimi venticinque anni, del primo presidente afroamericano della storia, di colui che ha ridisegnato buona parte dell’immaginario occidentale e del primo pontefice proveniente dal continente americano.

Non esattamente un compitino, comunque la si pensi: con tutti i limiti del caso, in una televisione costituzionalmente vecchia, asfittica e pochissimo a passo con i tempi, il conduttore è riuscito a realizzare la cosa più vicina a un Late Show americano mai partorita in Italia.

Il canto del cigno di ieri ha confermato questo assioma: aggiungere un nome di peso come quello di Sir Philip Anthony Hopkins alla lista degli ospiti internazionali è stato il colpo di teatro perfetto, la chiusura del cerchio ideale. Grazie al manierismo faziano abbiamo avuto accesso a un Hopkins inedito, disposto ad aprirsi e a ripercorrere la sua infanzia: «Da giovane non ero molto furbo e capace come studente, ma avevo un dono, mi resi conto che usando il dubbio, l’insicurezza, e la tua inferiorità, sfruttandola a tuo favore, capisci che ti può spingere in avanti». E poi l’aneddoto della pagella e dei cattivi voti a scuola: «Promisi ai miei genitori che mi sarei riscattato. Quella cosa mi ha fatto scattare ciò per cui sono qui oggi, altrimenti non c’è altra spiegazione per la vita che ho avuto. Mi è capitato di conoscere molte persone simili a me, ad esempio Myke Tyson, una persona che ha subito grandi abusi in infanzia. Il suo allenatore lo aiutò a capire che doveva capitalizzare, sfruttare quella rabbia».

Come prevedibile, Fazio ha scelto di abbandonare Viale Mazzini nella più totale sobrietà, ma senza dimenticare di sferrare qualche frecciatina all’operazione di egemonia culturale che Meloni e soci stanno portando avanti da tempi non sospetti. Un esempio? L’editoriale di Michele Serra, che nello spazio di poco più di cinque minuti ha provato a tracciare la sua personalissima storia politica della RAI chiamando direttamente in causa il «ministro della cultura Gennaro Sangiuliano, che qui ha detto che alla Rai ci sono gli stalinisti, ci chiediamo quanto sia stato per lui difficile sopravvivere quando era direttore del Tg2, lo tenevano chiuso in una segreta?». «C’è un brutto clima con la tendenza ad incasellare tutto e tutti, costretti a sentirsi in debito con qualcuno. In Rai sono molte di più le persone che fanno da sole», ha spiegato Serra. «Se fossi un intellettuale di destra sarei preoccupato, direbbero che sono salito sul carro del vincitore, che non arrivo perché sono bravo ma per la mia appartenenza politica. È giunto il tempo di una riflessione: la Rai è dello stato non dei partiti, l’atmosfera rimarrà tossica ora ed è grave perché ci lavora anche tanta gente per bene» (oh, dategli torto, se ci riuscite).

E poi, ovviamente, non poteva mancare la stoccata made in Litizzetto, con la sua letterina «indirizzata a Viale Mazzini». Esordisce: «Cara Rai, tu che sei partita con un canale e adesso ne hai più di Venezia. Tu che hai Tg1, Tg2 e, per ora, anche il Tg3. Tu che non hai più l’Annunziata. Eccoci arrivati alla fine della nostra relazione. Abbiamo retto a sette governi. Sono stati anni proprio belli, di allegria, fatica, grandi ascolti, ospiti importanti. Ogni anno pestavamo qualche merdone e ci spostavi di canale, ma abbiamo resistito: soprattutto grazie ai nostri milioni di spettatori che ci vogliono bene. Cara Rai, tu per me non sei la parte politica di turno che ti governa, tu sei Enzo Biagi, Mike Bongiorno, Piero e Alberto Angela, Pippo Baudo, Renzo Arbore, la mia amata Raffaella – e l’elenco continua . Mi lasci ricordi straordinari, e pure sto pirla di Fabio, che mi dovrò portare “alla prova del Nove”. Grazie a Fabio per tutti questi anni insieme. L’unico presentatore che se fa pessimi risultati gli danno addosso, e che se ne fa di ottimi gli danno addosso il doppio. Cara Rai, restiamo amici, chissà se un giorno ci ritroveremo, in un’Italia diversa, dove la libertà venga rispettata. In un’Italia dove un ministro non si preoccupa di quello che fa un saltimbanco. Non ti dimenticare che il servizio pubblico è di tutti, di chi governa e di chi pensa il contrario». Infine, il prevedibile schiaffetto correttivo al ministro delle Infrastrutture: «P.s. Bello ciao». Che dire: tutto perfetto.

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