Hai presente un tassista Sì Pos, ottimista e di sinistra? | Rolling Stone Italia
This pos kills fascists

Hai presente un tassista Sì Pos, ottimista e di sinistra?

Noi sì: si chiama Roberto Mantovani, vive a Bologna e, da settimane, porta avanti una battaglia a favore dei pagamenti elettronici e contro i privilegi della sua stessa categoria. Ogni giorno pubblica su Twitter l'incasso lordo della giornata, indispettendo i colleghi: «C'è chi mi ha bucato le gomme della macchina, chi ha smesso di rivolgermi la parola e chi mi ha rovesciato del rusco sull'auto, ma sorrido lo stesso». Lo abbiamo incontrato a Bologna per parlare di licenze, incassi e di quella che lui stesso definisce una lobby «con un potenziale economico-militare immenso»

Foto: Andrea Epifani

Immaginate per un attimo di calarvi nei panni di uno scrittore e di dover assolvere a un compito difficilissimo: costruire un personaggio atipico, irregolare e un po’ bizzarro, uno di quelli indimenticabili, capaci di sottrarsi a qualsiasi stereotipo e luogo comune, di non corrispondere a un tropo ampiamente codificato, magari in grado di spiazzare il lettore con una serie di scelte imprevedibili e, perché no, addirittura sconvenienti.

Decidete di abbozzarne uno talmente stravagante da rasentare l’irrealtà: un tassista marxista, femminista e antirazzista, a favore del Pos e della tracciabilità dei pagamenti, che combatte tutti i tic e i malcostumi che la vulgata comune associa alla sua categoria, parla apertamente di privilegio, dichiara quanto guadagna e catalizza l’odio e la repulsione della stragrande maggioranza dei colleghi, etichettandoli senza mezze misure come lobbisti privilegiati.

È un’idea che metterebbe in difficoltà chiunque, vero? Vi dico come reagirei io: rimarrei seduto alla scrivania per ore a fissare lo schermo, attendendo un segnale dall’alto che possa consentirmi di buttare giù un profilo quantomeno decoroso. Berrei una quantità di caffè spropositata, riempirei la ceneriera con decine di mozziconi, sbatterei i pugni sul tavolo e, alla fine, accetterei la sconfitta per schivare la crisi di nervi, conscio che scacciare lo spauracchio della pagina bianca è impossibile.

Per fortuna, però, ci sono gli scrittori bravi: uno di loro è Carlo Lucarelli, che questo personaggio lo ha creato per davvero. O meglio, lo ha trasposto, perché il fantomatico tassista gramsciano e “Sì Pos” di cui sopra esiste davvero: si chiama Roberto Mantovani, vive a Bologna e guida un’auto che, nel corso del tempo, è diventata un piccolo simbolo di resistenza – fun fact: in città è ribattezzata “Bologna 5”, come il numero della sua licenza. Qualche ora prima di partire alla volta della Grassa, lo disturbo al telefono e approfitto della sua proverbiale gentilezza per acquisire qualche informazione in più sul conto di questo improbabile conducente idealista (socialista? Vedremo, chissà). «L’ho conosciuto grazie a Twitter, durante il lockdown, quando ha messo a disposizione della cittadinanza il suo taxi, prestando servizio gratuito e ricevendo un riconoscimento pubblico dal sindaco. Sono rimasto affascinato dalla sua figura sin da subito, e ho fatto di tutto per entrare in confidenza con lui», mi racconta. Per conoscerlo di persona, analizzarlo e arruolarlo nella sua brigata letteraria, Lucarelli ha pensato bene di “adescarlo” con un piatto di tortellini («Ne va ghiotto, organizza anche un “Tortellino tour”», mi spiega). «L’ho portato al ristorante e ho iniziato a tempestarlo di domande: volevo sapere tutto di lui, mi incuriosiva tantissimo. In quel momento stavo iniziando a scrivere un romanzo ambientato Bologna, ma avevo qualche difficoltà, dato che erano tutti rinchiusi in casa per le restrizioni. Roberto si sottraeva a queste limitazioni: aveva la possibilità di osservare la città da un punto di vista completamente differente, poteva percorrerla in lungo e in largo, fornendo una prospettiva sull’esterno completamente diversa in un momento in cui tutti stavamo sperimentando una situazione inedita di isolamento: non potevo lasciarmelo scappare».

Per questa via, Mantovani è diventato uno dei personaggi di Léon, l’ultimo noir dello storico conduttore di Blu Notte.

Nelle ultime settimane questo tassista anomalo e partigiano ha catalizzato l’attenzione mediatica anche al di fuori dello spazio della finzione letteraria: Roberto – per gli amici “Red Sox”, proprio come la celebre franchigia di Major League che venera a livelli di fanatismo religioso, come testimoniano i calzini rossi che indossa quotidianamente e che ha scelto di tatuare sull’avambraccio sinistro – ha infatti iniziato a pubblicare sui suoi canali social l’incasso lordo della giornata, un po’ per dimostrare che i tassisti non dovrebbero avere niente da nascondere, un po’ per liberare la sua professione da una narrazione vittimistica e troppo spesso stereotipata.

Un esercizio quotidiano scomodo ma che – parole sue – si inserisce perfettamente nella sua lotta «contro quel lembo (che vuol dire una parte) marcio, diffamatorio, becero, certe volte NoPos e troppo spesso fascista che mi circonda, sotto gli occhi foderati di mortadella dei bravi colleghi ignari, indifferenti e quindi complici».

Incontro Roberto nel centro di Bologna a metà mattina, in Piazza San Francesco («un luogo abbastanza scenografico», dice lui). Parcheggia la sua Bologna 5 – la Volkswagen Touran citata poco sopra e diventata un po’ la sua personalissima Batmobile, customizzata ad hoc grazie alle donazioni che ha raccolto su Twitter. È impossibile non riconoscerla, sembra tracimata dalle pagine di un romanzo di Pier Vittorio Tondelli, Altri libertini o magari Camere separate: bianco e magenta, con la carrozzeria tappezzata di slogan antirazzisti, richiami al baseball e numeri di centri antiviolenza – con precisione millimetrica, in orizzontale, tagliando la piazza in due.

Io e Andrea, il videomaker che mi accompagna, lo preghiamo di fare retromarcia per pochi secondi e approfittare della cornice offerta dalla basilica per scattare una foto, ma niente da fare: non se ne parla, il rifiuto è tassativo. «Non posso, è vietato, se i colleghi mi sbirciano mi fanno il culo, e poi sai che casino?». È il galateo del tassista: dobbiamo desistere.

Prima di prendere la licenza, Mantovani ha lavorato per vent’anni nel settore delle rimozioni: si è temprato sul carroattrezzi, caricando veicoli sul pianale.«Senza false modestie ero un talento, uno di quegli stronzi patentati che ti portava via la macchina immediatamente dopo la segnalazione, senza possibilità di contraddittorio. Sono abituato a fare antipatia, mettiamola così».

 

Foto: Andrea Epifani

Ci accomodiamo su una panchina, gli chiedo come sta trascorrendo le ultime settimane e se il suo attivismo social ha generato reazioni da parte dei colleghi più incattiviti. «Beh, sì, ma ormai ci ho fatto l’abitudine» – spiega – «c’è chi mi ha bucato le gomme e chi ha pensato bene di rovesciare del rusco sulla macchina. Niente di grave: si butta via, si va all’autolavaggio e si riparte. Sono piccole intimidazioni, ma nulla di troppo fastidioso, almeno per come sono fatto io: per fortuna sono una persona paziente».

Vendette private tutto sommato trascurabili, insomma. In settimana, però, Mantovani ha abbandonato il suo lato zen e ha perso le staffe: «Qualche giorno fa, davanti alla stazione, due tassisti, per sfidarmi o per assecondare chissà quale contorto meccanismo mentale, hanno fatto il saluto fascista urlando “viva il Duce” davanti a me. La cosa mi ha toccato, anche perché ero a fianco alla lapide che commemora le vittime del 2 agosto del 1980. Per me è stata una pugnalata, certi simboli non devono essere neppure sfiorati».

Provo a immedesimarmi per un secondo nella sua condizione e mi faccio due domande. Ad esempio, come ci si allena a non avere alcun tipo di contatto nei luoghi di lavoro? E sopportare l’acredine quotidiana dei colleghi può essere logorante, alla lunga? Per Roberto, poi, la fatica è addirittura doppia: anche i tassisti che lo stimano preferiscono non rivolgergli la parola. «Com’è normale che sia, “ho anche degli amici tassisti” – ride, nda – ma il mio modo di interfacciarmi con loro è un po’ sui generis, mettiamola così. Se un collega con cui ho un buon rapporto nella vita di ogni giorno mi saluta al posteggio e gli altri lo notano, viene immediatamente additato come mio amico e, di conseguenza, diventa un nemico della categoria. Per salvaguardare lavoro e amicizia, abbiamo stipulato un tacito accordo: quando siamo in servizio non ci salutiamo, facciamo finta di nulla. Non me la prendo neppure, siamo d’accordo così. L’ambientino non è facile, hai notato?».

Foto: Andrea Epifani

Dopo i convenevoli, arriva il momento di addentrarci nella vexata quaestio: l’impronunciabile Pos. Acronimo di Point of sale, per ogni tassista che si rispetti (il morbo non infetta tutta la categoria, ma è comune a molti), questo strumento rappresenta la nemesi definitiva: basta sfogliare un giornale per rendersi conto di come, nella prospettiva di questi professionisti del trasporto pubblico, i pagamenti elettronici rappresentino una specie di iattura (il rapporto che li lega è, più o meno, quello che intercorre tra Paperone e Rockerduck). Ma perché il Pos dà così tanto fastidio al tassista idealtipico nostrano? La risposta di Mantovani è lapidaria: «Molti colleghi lo demonizzano perché garantisce la tracciabilità: amano il contante, perché il contante può essere nascosto e permette loro di dichiarare ciò che vogliono».

Roberto mi spiega che, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, l’antica dicotomia che vede contrapposti tassisti e carte di credito va avanti da tempi non sospetti: «I pagamenti elettronici sono un po’ la superstizione della nostra categoria: li abbiamo sempre osteggiati, ci siamo opposti, ma questo comportamento non ha senso. Siamo un servizio pubblico e dovremmo adeguarci alle esigenze della clientela, eppure non c’è ancora una legge che obblighi tutti quanti a garantire ai passeggeri possibilità di pagare con carta». Alla fine, sostiene Mantovani, le resistenze e quel clima di ostilità e di branco che ammanta la categoria hanno sempre la meglio: «Difendiamo i colleghi che non accettano il Pos per creare una sorta di cameratismo di gruppo. Non si deve contestare nessun tassista, si deve difendere l’operato di tutti i colleghi, anche quelli più beceri e maleducati, a prescindere, perché diversamente sei un “traditore”. Ma a me non sta bene, questa cosa mi manda ai matti».

Anche le fantomatiche “commissioni” sono poco più di uno specchietto per le allodole: «Mi viene da ridere, perché negli anni ne ho sentite di tutti i colori. Cose tipo “Le commissioni ci fanno fare la fame, ci ammazzano, rovinano le famiglie”. È una semplificazione così ridicola e falsa da fare impressione. Ti faccio un esempio: la nostra cooperativa divide le commissioni in parti uguali tra tutti i soci, proprio per incentivare l’utilizzo del Pos. Paghiamo la stessa somma tutti gli anni, una tantum, ma sinceramente non mi ricordo neppure l’esatto ammontare: è una cifra talmente irrisoria, trascurabile, che si dimentica subito. Di certo non ti impoverisce, ecco».

Continuo a fare la parte del giornalista antipatico e gli chiedo se, dal suo punto di vista, fa parte di una lobby che alla fine riesce sempre a spuntarla e a difendere i propri vantaggi di posizione, come sostengono diversi osservatori e anche alcuni quotidiani cattivoni. Anche in questo caso, risponde senza giravolte retoriche: «Sì, ovvio. Ho aperto il Treccani, il Garzanti e un altro paio di dizionari, e la descrizione ci inquadra alla perfezione: influenziamo l’operato politico, riusciamo a incidere addirittura sulle tenute dei governi; sì, siamo una lobby. Non dimentichiamo che Draghi è caduto subito prima lo stralcio dell’articolo 10 del Ddl concorrenza, quello che conteneva una norma per liberalizzare il settore: non penso sia un caso. Gente pratica i tassisti (ride di gusto, nda)». Più precisamente, per Mantovani i tassisti possiedono «una potenza economico–militare, riusciamo a salvarci sempre e comunque, in tanti i casi».

Foto: Andrea Epifani

Prendo in prestito il know how di Mantovani per farmi dire qualcosa di più su un altro argomento un po’ ambiguo per chi non siede al posto del conducente: le licenze. «Sul tema si fa tantissima confusione, anche perché il sistema italiano è un gran casino. Non c’è una regola nazionale, vengono concesse dai comuni a titolo oneroso e quindi ognuno fa un po’ come gli pare: c’è chi ha concesso le licenze gratis, c’è chi ha convertito le licenze dei vetturini in licenze per taxi e così via. Ogni città funziona un po’ come un ecosistema a parte ma, semplificando all’osso, è un po’ come comprare una casa; il comune emette la licenza per la prima volta e chi l’acquista può farne ciò che vuole: rivenderla, o magari farla ereditare a suo figlio. Quando l’acquisto viene portato a termine, si va dal notaio per registrarla, e quindi è una proprietà a tutti gli effetti. I privilegi nascono anche da qui: se il comune ti vende una casa, non può far finta di niente e privartene il giorno dopo».

Ma è possibile predisporre un correttivo? Sul punto Mantovani è parecchio scettico: «Non esistono formulette magiche, le cose funzionano così da troppi anni: bisognerebbe fare tabula rasa e azzerare tutto, ma mi rendo conto che non è un’impresa facile. Idealmente, però, sarei d’accordo». Con un po’ di timore – capitemi: in Italia parlare di soldi è sempre un po’ più difficile che altrove – chiedo a Roberto quanto ha pagato la sua licenza. E invece la replica è fulminea: «245mila euro, più le tasse, più il notaio, più la macchina. Queste sono le cifre di Bologna che, però, sono simili a quelle delle altre città. Anche qui: i tassisti parlano pochissimo delle loro licenze, perché vige quella cappa di segretezza che deve portarti a chiuderti verso l’esterno e non far trasparire nulla. Eppure, basta fare una chiamata per conoscere l’elenco dei tassisti che hanno messo le proprie licenze in vendita. Si può conoscere tutto: il prezzo, il nome e il cognome del venditore, il suo numero di cellulare».

Foto: Andrea Epifani

A Bologna, una città in cui alla domanda altissima fa riscontro un’offerta per nulla adeguata a soddisfarla, il giro d’affari di un tassista è considerevolissimo. Non a caso, Roberto non ha troppi problemi a definirsi benestante: «Guadagniamo benissimo, siamo un’isola felice. Ovviamente, Bologna non è la regola: in altre città, come Napoli o Catania, i colleghi incassano un quinto di ciò che incassiamo noi. Le due cooperative che gestiscono il servizio hanno funzionato benissimo, perché ci hanno dato un sacco di lavoro. La CotaBo (la cooperativa per cui Roberto lavora, nda), poi, è una macchina da guerra: ha raggiunto una perfezione che, per altre città, è inimmaginabile. Le cifre che faccio io alla sera sono impensabili per il resto d’Italia. Qui in città il problema, e lo dico contro i miei interessi, investe soprattutto la clientela: non ci sono abbastanza macchine, la vendita delle licenze è bloccata e la forza–lavoro è agli sgoccioli. Servirebbero nuovi tassisti, bisognerebbe aprire un po’ il mercato».

Quando finiamo la nostra chiacchierata, rimango un po’ stordito: non avrei mai pensato di poter raggiungere un livello di intimità così profondo. Roberto è una specie di aberrazione statistica, un monumento alla trasparenza: nella sua visione delle cose, non esistono segreti, ragioni di bottega o cameratismi a cui conformarsi. Lucarelli ci ha visto giusto: è un personaggio intrinsecamente letterario, dopo averlo conosciuto devi scriverne per forza. Come spiegare un’anomalia di questa portata? Un professionista che dichiara di guadagnare bene, parla senza problemi di un sistema che lo avvantaggia e, insomma, mette alla berlina i suoi stessi privilegi. Per darmi una risposta e semplificarmi la vita, penso al posto in cui siamo e giungo alla conclusione che un personaggio come Roberto poteva nascere solo a Bologna, la città dove «i portici tengono in piedi le case, hanno i reumatismi e le artriti di braccia operaie», come direbbe Bersani, nonché sede di un esperimento sociale e politico in cui i ceti borghesi (le professioni, l’imprenditoria, l’intellighenzia, la base urbana) sono venuti a patti con i principi del comunismo intersecandosi in una contaminazione felice e trovando un modus vivendi unico e mai messo in discussione nei decenni. E questo modus in Roberto un po’ si rivede.

Prima di liberarlo e lasciarlo ai suoi tortellini in brodo, gli pongo l’ultimo quesito: voglio sapere se c’è una domanda che nessun giornalista gli ha mai posto prima. A quel punto, Roberto – e quando mai – sfodera il coup de théâtre: «Nessuno mi chiede mai perché amo quel che faccio. Io faccio il lavoro più bello del mondo: conosco un sacco di gente, vengo a conoscenza di tante situazioni e ho la fortuna di potere entrare nelle vite dei passeggeri, anche se per pochi minuti. Chi altro può farlo? Sono fortunatissimo».

Sul finire della chiacchierata, cerchiamo insieme un titolo per l’intervista. Mi viene in mente che, durante i suoi live, Woody Guthrie appiccicava sulla cassa della chitarra un adesivo con un messaggio chiarissimo: “This guitar kills fascists“. Magari Roberto avrebbe potuto giocare facile e prenderla in prestito: “This Pos kills fascists”, suona bene.

Poi, però, guardo i portici e il centro di Bologna, quello in cui non si perdono neanche i bambini, e mi torna in mente il Lucio Dalla più sardonico, quello di Disperato erotico stomp. A quel punto, la risposta è sorta spontaneamente: “Non so se hai presente un tassista ottimista e di sinistra”. Fino a ieri no, a dire il vero.

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