Gianni Minà è esistito davvero | Rolling Stone Italia
TRISTE, SOLITARIO E GRANDIOSO

Gianni Minà è esistito davvero

Continuava a porsi delle domande sul mondo pur avendo intervistato chiunque, pur avendo conosciuto chiunque, pur potendo avere accesso a chiunque: una statura morale e intellettuale del genere, oggi, non sapremmo neppure immaginarcela

Gianni Minà è esistito davvero

Foto di Marco Cantile/LightRocket via Getty Images

Nel 1978 i Mondiali si giocano in Argentina, uno dei Paesi più pericolosi al mondo: due anni prima, con un colpo di stato, il tenente generale Jorge Videla, coadiuvato dai colleghi Emilio Massera e Orlando Agosti, ha deposto Isabelita Perón, instaurando una dittatura militare dai metodi sanguinari e crudeli.

Nell’aprile del ’77 iniziano i “giovedì delle madri”, che portano a conoscenza dell’opinione pubblica il modus operandi del regime: quattordici donne si ritrovano in plaza de Mayo, di fronte alla Casa Rosada, per camminare in silenzio e chiedere verità sui figli (nella maggioranza dei casi, nostalgici del peronismo) scomparsi. In quegli anni, ogni forma di antagonismo viene repressa a suon di sparizioni: gli scriteriati che si rifiutano di fiancheggiare il golpista scompaiono nel nulla. I più “fortunati” finiscono nei campi di concentramento, agli altri toccano i voli della morte – vengono gettati, nella maggioranza dei casi ancora vivi, da aerei militari che sorvolano il Rio de la Plata.

A seguire la manifestazione per la Rai c’è Gianni Minà: ha quarant’anni tondi tondi, lavora al Tg2 – sotto la direzione di Andrea Barbato – ed è una persona curiosa, politicamente attiva e dagli interessi trasversali: il calcio, ovviamente, la grande boxe, ma anche le scorie della dottrina Monroe (il noto principio secondo cui l’America Latina sarebbe il cortile di casa degli Stati Uniti, che hanno il diritto sovrano di intervenire a loro piacimento negli affari interni di qualsiasi paesi della regione), i diritti delle minoranze e le vicende interne ai Paesi cosiddetti “non allineati”.

La sua è una prospettiva onnicomprensiva: quando l’evento più prestigioso al mondo viene ospitato da un regime che uccide gli oppositori, il racconto non può essere incentrato unicamente sullo sterile aspetto tecnico–sportivo. Bisogna andare oltre il gioco di parole e la frase ad effetto, recuperare la faccia tosta e trovare il coraggio di denunciare, fare le domande giuste, trattare i dittatori per quel che sono, anche a rischio di mandare al macero mesi di preparazione, trasferte pagate e possibilità di carriera. In quei giorni vige il silenzio più totale: la stampa internazionale, compreso il giornalismo italiano, nelle settimane di Argentina 78 fa finta di nulla, vuoi per le difficoltà di svolgere il proprio mestiere in uno stato di polizia, vuoi per le coperture politiche di cui Videla gode in Occidente.

Minà, però, è un’anomalia di sistema e durante una conferenza stampa incalza il capitano di vascello Carlos Alberto Lacoste, vertice dell’ente che ha organizzato la manifestazione: vuole sapere perché le madri di plaza de Mayo sono così disperate, perché le autorità non fanno filtrare alcuna informazione sulle sorti dei loro figli. Per tutta risposta, viene espulso dal Paese e deve fare ritorno in Italia.

Da quel momento in poi, il suo interesse per la vicenda dei desaparecidos diventa una specie di missione, una costante che caratterizzerà tutta la sua carriera. I coccodrilli delle ultime ore hanno tutti sottolineato lo spropositato talento di Minà per le relazioni interpersonali: quella spinta empatica verso l’altro che, nel 1965, lo ha portato a cenare in compagnia dei Beatles nei leggendari studi Twickenam, mentre i Fab Four stavano girando il film Help!.

Eppure, anche in quella situazione delicatissima, Minà riesce ad avere accesso a una storia che, per la stragrande maggioranza delle persone, risulterebbe inaccessibile: entra in contatto con Hebe de Bonafini, una delle madri di Plaza de Mayo, la donna che ha trasformato la sua vita in pietra di inciampo per i collusi con la dittatura argentina. A fine anni Novanta riesce a intervistarla e nel novembre del 2022, pochi giorni dopo la sua morte, le dedica un pezzo meraviglioso, quasi 15mila caratteri per tributare una donna «Decisa a non accettare nessun compromesso per i troppi scomparsi che lei, nella sua vita, ha voluto ricordare e difendere dall’oblio e dalla ingiustizia per l’indulto, e l’impunità di cui hanno goduto in troppi».

Oggi tutti straparlano dell’importanza del networking, enfatizzando fino all’estremo la necessità di accattivarsi le simpatie del professionista più o meno noto di turno, mettendo in campo un fare paraculo, opportunistico (e, perché no, all’occorrenza un po’ servile) per costruire una rete di relazioni interamente consacrata al concetto di “favore”, confidando nella speranza di trarre un qualche tipo di vantaggio da quel numero che si è riusciti a strappare durante una cena affettata tra colleghi.

Quella proposta da Gianni Minà era una ricetta più complessa: la sua ambizione era quella di riuscire a costruire rapporti duraturi lungo l’arco di una vita intera, trasformare una generica “fonte” in un’amicizia in piena regola, come nel caso di Hebe.

Per avere una misura del livello di confidenza che Minà riusciva a raggiungere con l’interlocutore di turno, è sufficiente dare una sbirciata ai filmati presenti sugli archivi Rai: per dirne una, poteva permettersi di recarsi sul set di C’era una volta in America e sentirsi perfettamente a proprio agio, interloquendo con Sergio Leone come si fa con il panettiere sotto casa.

Gianni Mina sul set di Cera una volta in America Sergio Leone Robert De Niro Carlo Verdone

Lo stesso Sergio Leone che prese parte all’ormai celebre cena improvvisata da Checco Er Carettiere in compagnia Muhammad Ali, Robert De Niro e Gabo García Márquez: oggi per riunirli tutti in trattoria servirebbero mesi di trattative e uno staff interamente dedicato, a Minà bastava una telefonata. Troisi scherzava sulla fantomatica rubrica di Minà, un tesoro capace di fare impallidire qualsiasi guru del LinedIn: era l’uomo giusto al momento giusto, capace di conquistare la fiducia di uomini e donne importanti nel cinema, nella Storia e nello sport senza mai inciampare in una raffigurazione morbosa o faziosa. Lo ha raccontato lui stesso, quando gli è stato chiesto del suo rapporto con Maradona – un rapporto esclusivo, probabilmente unico, sia per il calciatore che per il giornalista. Minà era al suo fianco nei periodi più bui, quelli della dipendenza da cocaina, della depressione, della perdita di giudizio: avrebbe potuto condividere col mondo immagini intime e pietose del Dies, ma ha scelto di non farlo, di tenere tutto per sé: nel meraviglioso mondo antico targato Minà, gli amici venivano prima degli scoop.

L’altra eredità indispensabile lasciataci da questo giornalista straordinario è un interesse viscerale per tutto ciò che sfugge alla nostra ottica occidentale e post–colonialista: nel 1981, tre anni dopo l’espulsione dall’Argentina, contribuì alla fondazione di Latinoamerica e tutti i sud del mondo, una rivista indipendente portata avanti con dedizione e sacrificio che, negli anni, ha ospitato sulle sue pagine capisaldi della letteratura e dell’impegno civile in America latina, come Luis Sepúlveda, Eduardo Galeano, Paco Ignacio Taibo II, Frei Betto, Rigoberta Menchù, Adolfo Pérez Esquivel, e anche scrittori e saggisti nord americani ed europei come Noam Chomsky, Manuel Vázquez Montalbán, Giulio Girardi, Alex Zanotelli, Ettore Masina, Pino Cacucci e Gennaro Carotenuto. Come ha scritto Alice Olivieri, «Dal Dalai Lama a Federico Fellini, da Jane Fonda a Franco Battiato, fino poi ai suoi cari napoletani, Massimo Troisi e Pino Daniele, Gianni Minà non ha solo creato un’enciclopedia audiovisiva del secolo scorso, ma si è anche sempre impegnato a raccontare la parte del mondo sommersa, quella considerata meno importante perché più povera, il Sud».

Un interesse che, nel 1987, lo portò a intraprendere un colloquio di ben sedici ore con Fidel Castro (citato anche da Oliver Stone in Natural Born Killers). Da questa lunga conversazione filmata sono stati tratti due documentari, Fidel racconta il Che e Un giorno con Fidel, dove Castro, fuori da ogni ufficialità, racconta la sua vita, la storia della rivoluzione, la difficile relazione tra Cuba e gli Stati Uniti, le sconfitte e i successi politici. È cosa nota che Minà pagò a caro prezzo le sue simpatie marxiste: «Non mi hanno più voluto in Rai per aver intervistato Fidel, Lula, Hugo Chávez. Chi dice qualcosa di diverso dal pensiero degli Stati Uniti rischia l’isolamento. Speriamo qualcuno abbia la volontà di capire che non si possono più tacere le cose e che un Paese non cresce se la verità viene calpestata», aveva detto a chi gli chiedeva perché non si vedesse più in tv. Eppure, ha accettato l’immeritato depotenziamento senza mai vestire i panni della vittima.

Viviamo in un periodo consacrato alla velocità di esecuzione, in cui nutriamo l’illusione di poter essere perfettamente informati su quanto accade nel mondo guardando un reel di due minuti su Instagram, raccontato – col gobbo che scorre – dal bel faccino di turno che pretende di spiegarci come funzionano le cose (quando siamo fortunati: in altri casi, basta un meme). Minà continuava a farsi due domande pur avendo intervistato chiunque, pur avendo conosciuto chiunque, pur potendo avere accesso a chiunque: come spiegheremo a chi verrà che, ebbene sì, quest’uomo è esistito per davvero?