Fenomenologia del “gilettismo”, una storia italiana | Rolling Stone Italia
Un "giornalista scomodo"

Fenomenologia del “gilettismo”, una storia italiana

C'è chi lo considera il fautore del «giornalismo urlato», chi lo reputa un mago delle inchieste, chi ancora un cronista da assalto: quel che è certo è che Massimo Giletti ha saputo creare uno stile di conduzione tutto suo, che alcuni adorano e altri avversano. A poche ore dalla scelta di La7 di sospendere 'Non è l'Arena', immergiamoci nella cifra del fare giornalismo gilettiana

Fenomenologia del “gilettismo”, una storia italiana

Massimo Giletti

Foto via Getty

Il lavoro che, «con passione e dedizione», Massimo Giletti ha svolto per La7 è finito all’improvviso un giorno qualsiasi di aprile. Lo stesso in cui è ufficialmente morto il progetto di fare un partito unico del terzo polo. Piano però a parlare di giornata di liberazione, perché il meglio è nemico del bene e perché non si può mai dire l’ultima parola. La verità è che, per il momento, Urbano Cairo ha tolto a Giletti solo il suo palcoscenico domenicale, Non è l’Arena, e poi bisogna dire che tutto lascia presagire un ritorno del conduttore ai prestigiosi lidi della Rai, magari al posto di Fabio Fazio, inviso al governo e abbastanza in crisi di ascolti.

Quindi prendiamo questa storia con le molle, anche se l’aria è quella della fine dell’impero e Giletti certo non sta vivendo i momenti migliori della sua carriera. La procura di Firenze l’ha ascoltato per le interviste che ha fatto al pentito di Cosa Nostra Salvatore Baiardo, il quale ha peraltro rivelato di aver ricevuto un compenso (pare 48mila euro) per la sua preziosa collaborazione.

Ma lasciamo perdere, lui ha detto che «la verità verrà fuori a tempo debito» e non sembra il caso di fare un processo. Siamo qui per un altro motivo: come ha fatto Massimo Giletti a diventare un giornalista d’inchiesta? Anzi, il simbolo del giornalismo d’inchiesta, se vogliamo dare retta ai migliaia di tweet a sostegno della tesi che sia stato fatto fuori in quanto giornalista, ohibò, scomodo.

La domanda è quantomai lecita se andiamo a guardare il suo curriculum: Mixer di Giovanni Minoli, per cominciare. E qui siamo ancora nell’alveo della nobilità. Poi, andiamo con un elenco: Mattina in famiglia, Mezzogiorno in famiglia, I fatti vostri, Il Lotto alle otto, la cerimonia di premiazione del Fifa World Player del 2000 (quella che ha decretato quali migliori calciatori del secolo Maradona e Pelè), Ciak si canta, Buon Natale con Frate Indovino, Una voce per Padre Pio, Una voce per Padre Pio nel mondo. La pubblicità della Beghelli. Bodyguards con Boldi e De Sica al cinema. Tutto bellissimo, per carità. Tutto accompagnato da share allucinanti e introiti pubblicitari clamorosi. D’accordo. Ma il giornalismo d’inchiesta?

L’Arena è un programma televisivo nato dalla mente (geniale) di Cesare Lanza, che inizialmente aveva pensato a Mara Venier per la conduzione, anche se poi a guidare ci finiscono Giletti e Paolo Limiti. Da finestra all’interno di Domenica In a base di cronaca e costume, la trasmissione acquisisce nel tempo una sua autonomia e una certa autorevolezza. Gli ospiti fanno quasi a botte per andarci: politici, attori, opinionisti. Tutto alla grande per tredici anni. Una volta nel 2015 litiga a morte con Mario Capanna: il lancio a terra del libro dell’ex sessantottino scalda gli animi. Verrà multati per 25mila euro. Un’altra volta accusò un tizio di aver ucciso due delle sue ex fidanzate. Il tizio venne assolto, Giletti verrà condannato per diffamazione al pagamento di una multa (bassa, 344 euro). Non si contano le polemiche su vitalizi, sprechi veri e presunti, stipendi dei politici, torti vari ed eventuali subiti dal povero cittadino medio, vessato da tutte le parti nel paese che sembra una scarpa.

Poi, nel 2017, il direttore Mario Orfeo vuole dare un taglio a quello che lui definisce «giornalismo urlato e spettacolarizzato» e dà il benservito a Giletti. Che va a La7 e ripropone lo stesso identico format: Non è l’Arena.

In mezzo a tutto questo, diciamolo qui in mezzo così si nota di meno, Giletti si è anche dimesso dall’Ordine dei Giornalisti a seguito del quarto procedimento disciplinare per commistione tra attività giornalistica e pubblicità. Era il 2008, sarà riammesso nel 2014.

L’addio alla Rai, ad ogni buon conto, è tumultuoso. Giletti, ovviamente, grida alla censura, ma gli osservatori non faticano a respingere le accuse parlando di format ormai esausto, nonostante i 4 milioni di spettatori di media.

Sbagliavano. Su La7 Non è l’Arena sbanca, fa ascolti micidiali e Giletti ascende al ruolo di capitano ribelle, il conduttore che dà voce al popolo, anche se la Rai non lo vuole più. Soprattutto perché la Rai non lo vuole più. Lui che prende ex terroristi e li umilia in pubblico, che tratta i criminali da criminali e i giusti da giusti, che sacrosanteggia con il tono e la verve di chi possiede la verità. Perché gliel’ha data dio o chi per lui, cioè i telespettatori.

Non c’è emergenza sicurezza che non lo veda sulle barricate a chiedere il rispetto dell’ordine e della disciplina; non c’è scandalo o scandaletto che non meriti le sue paternali; non c’è potente che non tremi di fronte alla sua foga da inquisitore. Si diceva una volta che Michele Santoro fosse un tribuno del popolo. Ma che dire di Giletti? Ah, giusto: che è un grande giornalista d’inchiesta.

L’ex conduttore del Natale con Frate Indovino, da qualche anno, si è appassionato al tema della criminalità organizzata. Lui dice di aver sempre avuto quel pallino lì, ma in realtà è solo da quando è sbarcato sulla televisione di Cairo che ha cominciato a mandare in onda speciali televisivi con titoli come «Corleone, il potere e il sangue», «Fantasmi di mafia», «Abbattiamoli». Per Giletti sono tutti scoop, in realtà non ha mai mandato in onda nulla che non fosse già noto alle cronache.

Memorabile la volta che, mentre ferve il dibattito sulla guerra in Ucraina, Giletti va a Mosca ad esibire le sue doti di cronista d’assalto. Risultato: si fa prendere in giro dalla portavoce del ministro degli Esteri di Putin, viene rimproverato addirittura da Sallusti per aver superato i confini della decenza deontologica e alla fine sviene in diretta.

Il vero picco della sua carriera da giornalista d’inchiesta, però, è del 2019. Durante un’intervista a Matteo Salvini, spunta davanti alle telecamere la figlia dell’allora ministro degli Interni. Un incidente che può capitare. Il bello della diretta. Niente di grave. Con il mestiere si rimedia a tutto. Infatti Giletti non fa una piega. «Ciao dallo zio Massimo», dice. Sipario.

Infine, merita una menzione d’onore il peculiare stile di conduzione che il Massimone nazionale ha saputo forgiare a suon di urli, litigi, diti puntati e passione spropositata per il sottoproletariato fricchettone: per chi si fosse perso le puntate precedenti, la ricetta propagandata dal fu mattatore di Domenica In è semplicissima, quasi essenziale: chiunque dovrebbe avere il diritto di esprimere la propria posizione in diretta nazionale.

Peccato che, nella maggior parte dei casi, con le sue ospitate, il giornalista torinese ami trincerarsi dietro una raffazzonata “libertà di pensiero” per concedere spazi televisivi privilegiati a personaggi che, più che contestatori messi a tacere dal bavaglio dello Stato, hanno tutto l’aspetto di fenomeni da baraccone in piena regola, nei casi più fortunati innocui freak da salotto senza nulla da dire, in quelli più tragici aperti contestatori della scienza o artisti precipitati definitivamente nella tana del Bianconiglio, dal medico no vax di Biella che si è presentato all’hub vaccinale con un braccio in silicone al sempreverde Povia con il suo campionario di cospirazioni, dalla sostituzione etnica alla “teoria del gender”. In ogni caso, quel che certo è che, nel grottesco orizzonte concettuale di Giletti, queste “posizioni” meritano il favore della prima serata, tanto più nella delicata congiuntura storica attuale, proprio perché, insomma, «bisogna accettare il contraddittorio».

Vade retro, quindi, al concetto stantio di “equilibrio delle parti”, alla solita pretesa romantica del giornalismo come luogo dell’obiettività e tutte quelle menate, e vai di storie truci, proteste strillate, piazze arrabbiatissime, scetticismo vaccinale, rimbrotti all’amministratore di turno e omaggi inconsapevoli all’arte performativa.

Nell’immaginario nazionalpopolare, Giletti è anzitutto questo: l’idealtipico “giornalista con la schiena dritta”, quello che non le manda a dire a nessuno, che ha coraggio da vendere (il più delle volte non richiesto, come nel caso della memorabile spedizione fantozziana a Odessa) e che non è quasi mai d’accordo con quello che dici ma che, santo cielo, darebbe la sua vita pur di lasciartelo dire. L’hombre vertical di cui non sentiamo il bisogno, certo, ma forse (e un po’ drammaticamente) l’unico che possiamo permetterci.