Erdoğan è più in bilico che mai, ma cosa succede se perde le elezioni? | Rolling Stone Italia
Il trauma del campidoglio

Erdoğan è più in bilico che mai, ma cosa succede se perde le elezioni?

Secondo molti analisti e osservatori, qualora il presidente turco dovesse annusare la sconfitta nelle elezioni di domenica, i giudici e i funzionari elettorali a lui leali potrebbero ribaltare i risultati, seguendo gli esempi di Trump e Bolsonaro: stiamo per assistere a una Capitol Hill turca?

Erdoğan è più in bilico che mai, ma cosa succede se perde le elezioni?

Manifesti di Erdoğan in Turchia

Foto: Jeff J. Mitchell/Getty Images

Il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan potrebbe andare incontro a una sconfitta elettorale durante le elezioni presidenziali e parlamentari di domenica in Turchia. Almeno stando a quanto dicono i sondaggi.

A prima vista, Erdoğan sembra essere in difficoltà, soprattutto con il blocco dell’opposizione coalizzato intorno alla figura di Kemal Kılıçdaroğlu, meglio noto in Turchia come “Gandhi Kemal”, un soprannome affibbiatogli grazie a iniziative come la sua marcia da Ankara a Istanbul nel 2017 per protestare contro l’ondata di arresti messa in atto dal governo.

Un complessivo equilibrio sembra regnare su questa consultazione elettorale, con Kılıçdaroğlu in leggero vantaggio sul presidente in carica. Sostenuto dall’Alleanza Nazionale, una coalizione composta da sei partiti, lo sfidante sembra poter conquistare il maggior numero di seggi rispetto al Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP) di Erdoğan.

Il sud del Paese è in difficoltà per l’inadeguata risposta del governo all’enorme terremoto di qualche mese fa. Il disastro ha scatenato proteste per una devastazione aggravata dalla cattiva pianificazione urbana e dall’applicazione incerta delle normative edilizie, il tutto con una gestione negligente della crisi. Inoltre, la gestione economica di Erdoğan è stata bizzarra. La sua politica ha abbassato i tassi di interesse a fronte dell’aumento dell’inflazione e la Turchia è stata scossa da un’inflazione vertiginosa, che lo scorso autunno ha raggiunto livelli record.

Detto ciò, nonostante tutto bisogna comunque considerare Erdoğan come favorito. Nei suoi decenni al potere, ha rimodellato la Turchia indebolendo il modello parlamentare, trasformandolo in un sistema presidenziale con un governo quasi personale. Ha epurato i tribunali, il servizio civile e i media. Il sistema che ha creato potrebbe comunque garantirgli la vittoria.

E se accadesse l’impensabile e il presidente non riuscisse a confermarsi, potrebbe evitare di perdere? Secondo molti analisti e osservatori, qualora Erdoğan dovesse annusare la sconfitta, non è detto che lascerà tranquillamente il suo posto. In caso di vittoria dell’opposizione, i giudici e i funzionari elettorali leali a Erdoğan potrebbero ribaltare i risultati, come hanno tentato di fare annullando i risultati delle elezioni comunali di Istanbul nel 2019.

All’epoca, l’esponente dell’opposizione Ekrem İmamoğlu, un amministratore locale precedentemente sconosciuto, aveva stupito il Paese vincendo di misura nella capitale. Per Erdoğan la perdita della sua città natale, dove ebbe inizio la sua carriera politica negli anni Novanta, era un colpo basso. Dopo settimane di ricorsi dell’AKP, la commissione elettorale turca aveva accolto un reclamo relativo al conteggio delle schede, annullando la vittoria di İmamoğlu e scatenando l’indignazione. La ripetizione delle elezioni, progettata per annullare la vittoria a sorpresa di İmamoğlu, è stata un test senza precedenti sia per le fragili istituzioni democratiche della Turchia sia per il futuro politico di Erdoğan. Alla fine İmamoğlu ha trionfato nuovamente.

Per il presidente turco si tratterebbe, quindi, di “riconoscere la sconfitta”, un gesto che risulta sempre più difficile negli ultimi tempi: gli esempi più famosi sono stati certamente le elezioni statunitensi del 2020 e quelle brasiliane del 2022. La retorica trumpiana, riluttante a concedere la vittoria allo sfidante Joe Biden, ha incendiato i mesi successivi alle elezioni, fino a culminare nell’ormai storico assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021.

A distanza di due anni, in Brasile una folla composta da sostenitori dell’ex presidente Jair Bolsonaro ha assaltato il Congresso nazionale dopo le elezioni che avevano incoronato lo sfidante Lula da Silva. La mimesi brasiliana dell’assalto statunitense ha evidenziato come la mancata ammissione della sconfitta fosse un pattern replicabile, includendo anche una mobilitazione popolare.

L’effetto “assalto al Campidoglio” potrebbe quindi tornare a riproporsi in Turchia, stando a molti addetti ai lavori. In questo senso, il ministro dell’Interno turco Süleyman Soylu sembra aver provato a preparare il terreno: Soylu, in un discorso tenuto pochi giorni fa, ha paragonato le prossime elezioni a un tentativo di colpo di Stato, come riportato dai media turchi.

Il ministro ha affermato che queste elezioni sono simili al tentato golpe del 2016. “È chiaro che l’Occidente faccia parte di questo colpo di Stato. Loro [l’Occidente e i suoi alleati in Turchia] vogliono lasciare la Turchia impotente e prendere il controllo del Paese”, ha aggiunto. Un chiaro tentativo di screditare il risultato delle urne: il tema delle “elezioni truccate” è stato più volte sostenuto anche da Trump e Bolsonaro. Nel caso della Turchia questo trend è ancora più scottante, considerando che a differenza di Stati Uniti e Brasile il presidente turco ha un controllo molto più esteso delle strutture governative e statali, come dimostrato dalle elezioni amministrative di Istanbul.

Prima di saltare a conclusioni troppo affrettate, però, bisogna fare una serie di distinguo: per quanto la Turchia sia scivolata in una pericolosa deriva autocratica negli ultimi anni, queste elezioni possono essere un momento di svolta per il paese; il loro svolgimento, secondo molti report, dovrebbe essere esente da brogli. Allo stesso modo, per ora Erdoğan non ha posto il riconoscimento (o il mancato riconoscimento) della sconfitta come un tema al centro del dibattito, a differenza di quanto fatto da Trump. La cosa è emersa piuttosto a latere della campagna elettorale, come nelle dichiarazioni di Soylu: non è quindi chiaro se si tratti di qualcosa di concreto.

Le speranze di una transizione morbida, in caso di successo dell’opposizione o di potenziale ballottaggio, sono state però offuscate da una serie di commenti minacciosi. “La mia nazione non consegnerà il Paese a chi diventerà presidente con il sostegno di Qandil”, ha dichiarato Erdoğan ai suoi sostenitori ad Ankara. Le montagne di Qandil, al confine tra Iraq e Iran, sono la base principale del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK), che da trentanove anni conduce un’insurrezione contro lo Stato turco.

Il discorso politico del partito di Erdoğan, l’AKP, ha assunto anche toni violenti con l’avvicinarsi del giorno delle elezioni, sollevando il timore che tale linguaggio possa alimentare un’escalation delle violenze. Durante un comizio nella città mediterranea di Antalya, il presidente ha dichiarato che la Turchia avrebbe “seppellito” Kılıçdaroğlu alle urne.

Nell’aprile 2019, nella provincia di Ankara, lo stesso Kılıçdaroğlu è stato attaccato dalla folla e preso a pugni. Il suo entourage è stato costretto a cercare riparo in una casa vicina mentre i manifestanti gridavano “Bruciateli, uccideteli”. Il mese scorso è stato costretto ad abbandonare una visita elettorale dopo un attacco ad Adiyaman, una provincia del sud-est colpita dai terremoti di febbraio.

Le elezioni in Turchia sono uno dei principali appuntamenti del 2023: dalle urne potrà uscire un nuovo Paese oppure una versione rafforzata della Turchia che già conosciamo. Il clima si è surriscaldato parecchio negli ultimi giorni, lasciando il mondo intero con una domanda: cosa farà Erdoğan in caso di sconfitta? Staremo a vedere.