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E così siamo tornati a parlare di castrazione chimica

Dopo lo stupro di gruppo di Palermo e la lunga rassegna di orrori che ha portato con sé, Salvini si è fatto nuovamente portabandiera della campagna, soffiando sulla rabbia degli aspiranti vendicatori della notte

Foto di Roberto Serra - Iguana Press/Getty Images

La prima volta che il tema della castrazione chimica uscì dai più sadici circoli di aspiranti vendicatori della notte per diventare materia di dibattito tra le forze politiche era il 2002. A lanciare l’idea fu l’allora vicepresidente del Senato Roberto Calderoli che proponeva di utilizzare questa misura contro i pedofili: somministrare farmaci e trattamenti ormonali teoricamente in grado di inibire il desiderio sessuale in modo da bloccare ogni problema alla radice. Ai tempi ancora non c’era dibattito sull’origine della violenza sessuale, pochissimi parlavano della sua natura socioculturale.

Lo sdegno unanime di tutte le forze politiche ridusse l’argomento a battuta di pessimo gusto per nulla estranea all’abitudine leghista di spararla grossa ai limiti dell’inaccettabile. Calderoli, comunque, non ha mai mollato il punto, negli anni si è fatto promotore più volte di iniziative legislative sul tema, raccogliendo consensi via via crescenti. Nel 2008 il leader di Alleanza Nazionale rilanciò il tema con un’intervista al Tg1 nella quale sosteneva che evirare i pedofili fosse un buon modo per inibire le loro «tentazioni, le pulsioni». Incredibilmente l’allora segretario del Pd Walter Veltroni offrì una sponda con una delle sue solite lunghissime perifrasi a base di «ma anche», nel tentativo – poi rivelatosi vano, anzi rovinoso – di inseguire la destra sui suoi temi in ottica elettorale. «Non c’è nessuna certezza che questo metodo funzioni come ha spiegato il professor Garattini, uno dei massimi esperti di farmacologia in Italia – disse Veltroni. Ma se la scienza ci mettesse nelle condizioni di trovare un metodo efficace non vedo perché non ricorrervi. Ma allo stato delle cose non abbiamo la certezza che la castrazione chimica sia efficace».

È in questo momento che scompare dal dibattito un caposaldo dello stato di diritto: l’inviolabilità del corpo, cioè il diritto che si configura come condizione fondamentale per l’esercizio di tutti gli altri diritti, perché senza corpo non c’è libertà e nessun potere può permettersi di oltrepassare questa linea.
Beninteso, sia nel caso di Calderoli sia in quello di Fini sia in quello di Veltroni l’argomento è una sparata che difficilmente potrà mai circostanziarsi, perché in nettissimo contrasto con la Costituzione, le norme europee (risoluzione numero 1945 del 2013: «nessuna pratica coercitiva di sterilizzazione o castrazione può essere considerata legittima nel XXI secolo») e con la dichiarazione universale dei diritti umani.

La castrazione chimica ha fatto nuovamente capolino nel dibattito pubblico negli ultimi giorni, dopo lo stupro di gruppo di Palermo e la lunga rassegna di orrori che ha portato con sé. Matteo Salvini ovviamente si è fatto portabandiera della campagna – la Lega da anni raccoglie firme a sostegno di provvedimenti del genere – trovando come compagna di strada anche un’insospettabile, la drammaturga Emma Dante, che con un post su Facebook (poi ripreso anche da Repubblica) parla dell’evirazione come di «un gran rimedio». Gran bagarre sui giornali e sulle bacheche dei social network, mentre in parlamento qualcuno tira fuori la solita proposta di legge verosimilmente destinata a sparire nel nulla nel giro di poche settimane.

Va detto, comunque, che non sono pochi i paesi che ritengono la castrazione chimica una soluzione, anche se all’interno di percorsi medici e previo consenso del soggetto in questione. È così negli Stati Uniti, nel Regno Unito, in Israele, in Portogallo e in Nuova Zelanda, mentre solo in Russia e in Polonia non è necessario alcun consenso per procedere. Il più famoso caso di castrazione chimica della storia è con ogni probabilità quello del matematico Alan Turing, che la preferì alla galera (era il 1952 ed era stato condannato per omosessualità. Nel 1954 deciderà di togliersi la vita).

Nel 2021, in Pakistan, dopo averla inserita come clausola in una legge contro gli stupri, alla fine il governo ha desistito ed è tornato sui suoi passi. Amnesty International, in precedenza, aveva definito la pratica «crudele e disumana»: «Questa legislazione crudele e disumana non solo viola gli obblighi legali internazionali e costituzionali del Pakistan. Inoltre, non farà nulla per affrontare il flagello della violenza sessuale. Piuttosto che aumentare le punizioni, le autorità dovrebbero affrontare i problemi profondamente radicati nel sistema di giustizia penale che invariabilmente negano la giustizia alle vittime. La castrazione chimica non risolverà una forza di polizia carente o investigatori inadeguatamente formati».

Fatto sta che in Italia – paese che incidentalmente ha dato i natali a Cesare Beccaria, anche se ormai ricordarlo suscita al massimo tenerezza – la castrazione chimica non è più un tabù, persino i più critici ormai si oppongono dicendo che «non serve a niente» e che avrebbe una funzione deterrente a dir poco scarsa, ma ormai più nessuno trova il coraggio di dire che, per quanto orribile possa essere un’azione e per quanto grave possa essere un reato commesso, la pena deve avere sempre e comunque un carattere retributivo e rieducativo e che in nessun caso si può toccare il corpo del condannato.

La questione di principio ormai non regge più, in un dibattito pubblico completamente impazzito nel quale il riverbero via social della versione degli aguzzini diventa un modo di solidarizzare con le vittime e in cui si scambia la diffusione di dettagli morbosi e superflui con l’esercizio del diritto di cronaca. Stupisce fino a un certo punto, dunque, che persino la castrazione chimica non venga più ripudiata in quanto opposta a qualsiasi idea democratica di giustizia, ma solo perché inutile.

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