Come siamo arrivati all’orrore del carcere minorile Beccaria | Rolling Stone Italia
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Come siamo arrivati all’orrore del carcere minorile Beccaria

Botte, punizioni, umiliazioni, insulti razzisti, pure una tentata violenza sessuale. È successo nell’istituto milanese ora al centro di un’indagine. Che dice che nessuno è davvero innocente

Come siamo arrivati all’orrore del carcere minorile Beccaria

L’interno del carcere minorile Beccaria di Milano

Foto da Tg3

Botte, punizioni, umiliazioni, insulti razzisti, pure una tentata violenza sessuale. Succede nel carcere minorile Cesare Beccaria, a Milano, la (ehm) culla della civiltà dell’Italia di oggi. Ma tanto sarebbe potuto succedere ovunque: le prigioni sono dei non-luoghi, zone grigie separate dalla realtà, con regole loro e dove non entra niente, a volte neanche la legge, sicuro non gli occhi o l’interesse dell’opinione pubblica. Non ci interessa sapere cosa avviene lì dentro, non ci pensiamo; e poi, anche per questo, si arriva a situazioni del genere.

È paradossale: Beccaria diceva che il terrore non avrebbe educato, né fatto desistere dal compiere altri reati; e invece, al Beccaria, c’era proprio «un clima di terrore». A scriverlo, letteralmente, sono i pubblici ministeri che ieri hanno fatto arrestare tredici agenti, con altri otto sospesi dall’incarico. Gli indagati sono in tutto venticinque, abbastanza da far pensare che «esiste un sistema nel carcere Beccaria per educare i minori detenuti», un insieme di violenze riconosciute da tutti. Chiaro, ci sarà un processo e ancora non è detto niente. Ma intanto ci sono prove e testimonianze che descrivono «un ambiente condizionato dall’angoscia continua di poter essere pestati per essere educati»: gli agenti avrebbero commesso abusi «devastanti», da pestaggi a vessazioni e umiliazioni, con sputi e insulti razzisti come contorno. Il tutto contando che si tratta di minori, spesso messi nelle condizioni di non potersi neanche difendere.

Un episodio tra i tanti: un ragazzo reagisce alle molestie sessuali di una delle guardie, così in sei – tra cui tale Gennaro Mainolfi, «soprannominato MMA perché picchiava forte», riporta l’Ansa – lo rendono inoffensivo con uno spray al peperoncino, lo insultano e lo colpiscono, poi lo ammanettano a terra, con le mani dietro la schiena, e da lì ancora calci e pugni; infine lo portano in una specie di cella d’isolamento – il trucco è picchiare senza lasciare segni, in zone del carcere dove non arriva la videosorveglianza: c’è evidentemente della scienza dietro tutto ciò – e lo spogliano, per prenderlo a cinghiate, farlo sanguinare e lasciarlo per terra, nudo, per almeno un’ora. Roba da lager. E poi, ancora, altri avrebbero subito pestaggi in situazioni da dieci contro uno, e altri ancora calci in faccia, con gli anfibi, talmente forti da non dormire la notte.

Le storie riguardano, per adesso, dodici detenuti, in un arco di tempo che va dalla fine del 2022 allo scorso marzo. Uno di loro era tra gli evasi il giorno di Natale di due anni fa. Ora: non serve chissà quale lettura della realtà per capire che se un ragazzo evade a Natale, mettendosi quindi in una posizione ancor più difficile di quella in cui già si trova, non lo fa perché è un delinquente, ma di solito perché è disperato e vive una situazione di disagio – materiale, psicologico, di tutto.

Perché forse non è chiaro fino in fondo cosa siano le carceri minorili: delle carceri a tutti gli effetti, con le dinamiche tipiche delle prigioni, dalla celle a un certo tipo di condivisione degli spazi e di rapporto con le autorità; ma dentro ci sono, appunto, dei minori, a volte perfino appena adolescenti. Sono meno di venti in tutta Italia, per poche centinaia di detenuti. E ok, sono casi limite: di solito si riesce a “dirottarli” su misure alternative, dai domiciliari in giù; ma a maggior ragione la situazione di chi è dentro è delicata, e merita particolare cura. Spesso sono ragazzi che non hanno famiglia alle spalle, non possono permettersi i domiciliari stessi, sono stati mal consigliati dagli avvocati o hanno avuto comportamenti inappropriati con il giudice, inimicandoselo; quasi sempre sono stranieri, alcuni dei quali venuti nel nostro Paese da soli e costretti a delinquere per necessità.

Appurato che il carcere fatica a mettere in pratica la propria funzione rieducativa con i detenuti adulti, a che risultati può portare applicare le stesse dinamiche a dei ragazzi? Contando che si parla, appunto, di persone che a quell’età dovrebbero essere a scuola e che si portano dietro storie difficili, che risultati si può pensare di ottenere se al posto degli educatori – che ci sono, ma latitano, perché il personale in generale è sempre scarso – tutto passa in mano ad agenti come quelli del Beccaria? Che futuro ci s’immagina per questi ragazzi? Tenerli così non è forse rovinargli la vita, compiere un delitto di Stato?

Al di là delle parole («È una brutta pagina per le istituzioni», hanno detto i pm) e del fatto che il carcere minorile può essere considerato un’aberrazione di per sé – come si può pensare di educare dei ragazzi con queste carceri? – il problema resta comunque, nel senso che su vicende come quelle del Beccaria è difficile tornare indietro, il danno è fatto, e bisogna prevenire.

Il problema è sia culturale e sia pratico. La nostra mancanza di cultura per il carcere, di rispetto per i detenuti e le loro condizione, il totale disinteresse per ciò che succede all’interno di certe strutture, genera mostri: se si cresce in una realtà in cui tutto questo, semplicemente, non è un problema, non solo si legittimano i comportamenti degli agenti, ma si alimenta un sistema marcio alla base, in cui gli agenti stessi, a loro volta, entrano in servizio senza preparazione al ruolo. La responsabilità è diffusa: loro ovviamente, ma anche dello Stato che rappresentano. In più, il personale è comunque poco, e gli istituti sono un disastro a livello di condizioni di vita. Così i ragazzi, già a disagio di loro, reagiscono male. E se gli agenti non sono pronti a trattarli nella maniera giusta, ma rispondono con la violenza, convinti che, boh, possa in qualche modo mettere ordine senza fare danni, si ritorna al punto di partenza. È un circolo che si autoalimenta.

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