«Benvenuti nel buio» – dentro l’Ascus Lecce, la squadra di non vedenti più titolata d’Italia | Rolling Stone Italia
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«Benvenuti nel buio» – dentro l’Ascus Lecce, la squadra di non vedenti più titolata d’Italia

Fondata nel 1985, la società salentina è diventata un manifesto contro l'isolamento sociale delle persone con disabilità visive, la dimostrazione che lo sport è la parte più visibile di una lotta quotidiana, di una voglia di rivincita: il campo è l’arena dove dimostrare alla società la propria normalità. Abbiamo trascorso una giornata con Salvatore Peluso (il bomber), Pantaleo Bortone (lo stopper) e Davide Dongiovanni (il mister) per farci raccontare una storia gloriosa

«Benvenuti nella nuova dimensione del buio. Non abbiate paura, cercheremo di mettervi a vostro agio». Una voce dalla sicurezza quasi robotica ha pronunciato queste parole prima che entrassi nella sala. Prima che il nero mi avvolgesse completamente. Camminavo con la mano poggiata sulla spalla della mia guida. Avanzavo a fatica ma una fascio di luce, seppur flebile, filtrava dall’esterno e questo mi consentiva ancora di intravedere il pavimento. Inoltre, il passo deciso del mio accompagnatore suppliva il graduale disorientamento. Ma una volta al centro della sala il buio è diventato improvviso. Fagocitante. Assoluto. Avevo gli occhi spalancati ma non vedevo nulla. D’un tratto anche la mia guida si è staccata dalla mano e sono rimasto improvvisamente privo di ogni senso dell’orientamento.

A galleggiare come un satellite smarrito nell’infinitezza dell’Universo. Il primo pensiero che si è insediato nella mente non è stato tranquillizzante, non ho pensato che avrei potuto chiedere aiuto, che sarei potuto uscire da quella sala da un momento all’altro e tornare alla luce, se solo l’avessi voluto. No, ho pensato che quella sarebbe stata la mia condizione per sempre. Che quel buio improvviso sarebbe stato eterno, che la cecità mi avrebbe accompagnato fino all’ultimo dei miei giorni. Il cuore ha iniziato a pulsarmi fino alla gola, sentivo il sudore inumidirmi la maglietta e il brivido caldo di un attacco di panico montare come magma. D’un tratto il mio braccio è stato stretto da una mano e mi è sembrato come se mi avessero preso per capelli e tirato su da una profondità acquatica. Nuovamente la guida mi restituiva il senso dell’orientamento e mi accompagnava al tavolo, insieme agli altri commensali.

Le cene al buio sono una delle tante iniziative che l’Ascus Lecce – la squadra di calcio per non vedenti più titolata d’Italia – organizza per autofinanziarsi e Davide Dongiovanni, il regista della squadra, ha un consiglio da darmi dopo che nella sala si sono riaccese le luci: «Alla prossima cena non pensare troppo e attiva gli altri sensi», dice. Nonostante ci sia una federazione, la Fispic (Federazione Italiana Sport Paralimpici per Ipovedenti e Ciechi), i finanziamenti arrivano col contagocce per questo genere di sport. Così le squadre sono costrette a escogitare ogni genere di soluzione per finanziare trasferte, attrezzatura e allenamenti. L’Ascus Lecce è una leggenda per lo sport paralimpico. Ha vinto 10 campionati (su 18), 5 supercoppe italiane e 5 coppe Italia. Il centravanti, Massimo Cervelli, ha realizzato più di 200 goal ed è stato più volte capocannoniere del torneo. In Italia il calcio per ciechi è stato fondato proprio a Lecce, dal non vedente Salvatore Peluso e la prima partita ufficiale è stata il derby di Puglia: Lecce contro Bari.

Era il 1985. La partita finì 1 a 0 per i salentini e il gol fu realizzato proprio da Peluso. Col passare degli anni l’Ascus Lecce è diventata la squadra più forte d’Italia. Ma da quel derby di Puglia il calcio, per i giocatori non vedenti, è diventata anche una metafora della vita. Per chi è affetto da una disabilità, soprattutto visiva, le giornate rischiano di scorrere in casa, davanti al televisore, ascoltando e immaginando una vita lontana. Inarrivabile. Una situazione di isolamento alimentata da una concezione per cui il disabile, dentro una famiglia, è stato spesso qualcosa da nascondere o proteggere tra le mura della casa. La nascita dell’Ascus Lecce ha rappresentato una rivoluzione in questo senso.

Salvatore Peluso ha una cicatrice che gli solca un occhio. Quello sfregio è la genesi della sua cecità, un ricordo lontano ma ancora vivido. All’improvviso un bagliore e un boato enorme. Poi tutto bianco. Questa è l’ultima cosa che ricorda prima di perdere la vista. Era una giornata di sole, i raggi luccicavano sull’erba, macchie rosse di papaveri ammantavano il verde delle praterie. Aveva cinque anni e con due amichetti andò a giocare in una campagna vicino alla fattoria di suo nonno. Trovarono uno strano oggetto metallico e uno di loro provò ad aprirlo. L’esplosione fu improvvisa. L’oggetto misterioso era una granata, lasciata lì da chissà chi. Il bambino che provò ad aprirla morì sul colpo, il secondo amico rimase mutilato delle braccia mentre Peluso, che si trovava più lontano, perse la vista.

«Una grazia di Dio», così definisce Peluso la sua cecità. «Da vedente non so se sarei stato un uomo cattivo oppure buono. Non so quale sarebbe stata la mia strada, oggi invece posso dire di aver realizzato qualcosa nella vita». Peluso ha sempre avuto l’animo del ribelle. Da bambino era il capobranco della comitiva dell’Istituto per ciechi “Anna Antonacci” di Lecce, dov’era ospitato. Spesso era in punizione perché poco ligio alle regole che la società imponeva alla sua disabilità. Proprio in istituto nacque la passione per il pallone. Da un’evasione in piena regola. Nel cuore della notte guidò il gruppo di maschietti, scavalcarono la finestra della camerata che dava nel cortile e iniziò una partita infuocata, con il pallone avvolto in una busta in modo da poterne sentire il rumore. Gli insegnanti ci misero poco tempo a svegliarsi e bloccare tutto. Ma fu un tempo necessario a far germogliare l’amore per il calcio.

Col passare degli anni perfezionarono la tecnica per rendere la palla più udibile. «L’idea di formare una squadra nacque quando avevo vent’anni – ricorda Peluso – all’epoca giocavamo con un pallone intorno al quale era attorcigliato uno spago sul quale era legato un recipiente con dentro un mucchio di tappi di birra. Rotolando si sentiva il rumore metallico e riuscivamo a percepire la presenza del pallone. Certo, se andavi a calciare il recipiente erano dolori ma l’attuale pallone regolamentare, con i sonagli all’interno, nacque da quell’idea. A Lecce eravamo già un bel gruppetto e ci organizzammo con alcuni non vedenti di Bari per fare una partita: era il 1985 e il derby di Puglia fu la prima sfida d’Italia tra due squadre di ciechi». Ricorda che gli spalti brulicavano di persone e la partita fu sentitissima. Uscirono i primi articoli di giornale: Anche i ciechi possono giocare a pallone, titolarono. Quindi Peluso cominciò a essere contattato da non vedenti di Roma, Ferrara e altri centri. Con gli anni svilupparono il calcio per disabili visivi, che oggi è una disciplina paralimpica e ha un campionato ufficiale. «Non era solo una questione di sport – continua sempre Peluso – avevo capito che con il calcio potevo far uscire di casa i ragazzi, strapparli alla solitudine e all’apatia, potevo creare un gruppo. Quando ero più giovane mi facevo accompagnare da un amico vedente in giro per la provincia, a prendere da casa i ragazzi e portarli all’allenamento. Lottavo anche contro i genitori, che hanno sempre visto il calcio come uno sport troppo pericoloso».

In questa disciplina le squadre sono composte da 4 giocatori non vedenti e da un portiere vedente. Un altro membro vedente della squadra, in genere il vice allenatore, viene posizionato dietro la porta avversaria e con la voce deve aiutare gli attaccanti a localizzare la porta. Si chiama, appunto, “guida retro porta”. A centrocampo, invece, i giocatori sono guidati dalla voce dell’allenatore e in difesa da quella del portiere. Per evitare il più possibile scontri pericolosi tutti i giocatori in campo devono localizzarsi, ovviamente tramite la voce, gridando “voy” quando si muovono verso un avversario, contrastano o cercano la palla. Gli spettatori devono rimanere in silenzio durante il gioco, in modo che i calciatori possano sentire la palla muoversi, le proprie voci e quelle delle guide. Tuttavia, la prima volta che si assiste a una partita del genere tutto sembra un grumo di suoni e sembra già assurdo come i giocatori possano scongiurare le craniate fra loro, figurarsi trovare la porta e pure segnare. Per Dongiovanni, il regista, più voci non rappresentano un problema. «L’udito è il senso che ho sviluppato di più. Riesco a captare e ascoltare contemporaneamente più conversazioni. Una cosa che mi aiuta molto nel mio ruolo a centrocampo».

Nello spogliatoio, prima di una gara, la tensione sale come in una partita di calcio normale. C’è chi grida, chi incita, chi si abbraccia. Pantaleo Bortone, 49 anni, chiamato da tutti Leo, è lo stopper. Grinta allo stato puro. Sprizza adrenalina da tutti i pori. “The Wall”, come viene definito dai suoi compagni per la sua invalicabilità. Se necessario argina gli avversari con falciate degne di Paolo Montero, mantiene alta la tensione in campo, litiga con gli arbitri e pure col suo allenatore se non condivide alcune decisioni. «Spesso vengo frainteso, mi chiedono di stare più calmo – racconta lo stopper – non capiscono che io sono solo grinta. Quella ho. Hai presente Rocky? Gli occhi di tigre? Ecco se mi togli gli occhi di tigre, Leo Bortone ha finito di giocare a calcio».

Rimasto cieco a 37 anni per una retinite pigmentosa, il suo adattamento alla cecità è stato ancora più duro rispetto agli calciatori dell’Ascus Lecce, che hanno perso la vista da bambini o sono ciechi dalla nascita. Il mondo è cambiato improvvisamente, l’adattamento alla nuova vita è stato come precipitare in una nuova atmosfera. «Ci vogliono le palle, sai, per diventare cieco a 37 anni, dopo che hai visto una vita intera e di colpo sei dipendente da tutti, ecco, ci vogliono le palle per andare avanti comunque. Quando il nero mi ha avvolto totalmente, avevo attacchi di panico in continuazione. Non riuscivo a orientarmi, avevo bisogno sempre di aiuto ed era una cosa che detestavo».

Dongiovanni se ne sta invece per i fatti suoi, in un angolo dello spogliatoio. Preferisce concentrarsi in silenzio. È rimasto cieco all’età di 10 anni, a causa di un glaucoma. Il suo carattere è completamente differente da quello di Peluso e Bortone. È riflessivo e solitario. «Il calcio è un modo per sentirmi uguale agli altri. Non dimenticherò mai la gita di terza media, quando la sera rientravamo nelle stanze. I miei compagni bisbigliavano tra di loro, percepivo che comunicavano a gesti per organizzarsi e uscire dalla stanza senza che me ne accorgessi. Poco dopo sentivo i loro schiamazzi e i risolini in corridoio, che entravano e uscivano dalle stanze degli altri amichetti e in quelle delle ragazze. Si divertivano, mentre io ero rimasto solo nella stanza, nel mio letto. Ricordo ancora nitidamente quella sensazione di solitudine. Adesso è diverso, la squadra mi ha aiutato molto ma il vero problema dei non vedenti resta l’isolamento, il buio sociale».

Più questi atleti si osservano da vicino, più si entra nelle loro vite, più ci si rende conto che il calcio è un tassello di un mosaico molto più ampio. Lo sport è la parte più visibile di una lotta quotidiana, di una voglia di rivincita. Il campo è l’arena dove dimostrare alla società la propria normalità. Una sfida complicata, specie nel nostro tempo, in cui l’immagine si impone sempre più come un culto, la vista sempre più come il senso dominante. Del resto, quello di restare nell’oscurità è sempre stato uno dei timori più reconditi dell’uomo, una delle angosce più comuni dei bambini, che per trovare serenità chiedono ai genitori di addormentarsi con la luce accesa. Luce e buio: due mondi da sempre contrapposti. E spesso chi crede di vivere nella “luce” è spinto a temere il buio e ad allontanarlo insieme a chi ci vive dentro. Di tutto questo parlo con Dongiovanni, mentre mi chiede di accompagnarlo a casa alla fine di una partita in cui hanno subito una brutta sconfitta. L’età media dalle squadra è ormai alta e la mancanza di ricambio generazionale sta minando la tenuta della gloriosa Ascus Lecce.

Mentre camminiamo sul marciapiede mi chiedo come faccia a districarsi in questa selva urbana, fra pedoni che non si scansano, macchine sugli scivoli, marciapiedi dissestati a rischio inciampo. Poi arriviamo su un viale a quattro corsie, trafficatissimo. Come tutti gli altri non è provvisto di un semaforo sonoro che possa avvisare quando scatta il verde per i pedoni. Dongiovanni dice che bisogna ascoltare il rumore delle macchine, quando il rumore è lontano si può attraversare. «Le città non sono pensate per i non vedenti – spiega Dongiovanni – molti di noi non hanno mai visto la città in cui sono nati. Col tempo se ne sono creati una fittizia. Quando camminiamo per strada, per orientarci, ci costruiamo nella mente dei percorsi, una mappatura. Memorizziamo che in un percorso ci sono un certo numero di strade parallele, un certo numero di ostacoli. Molto spesso tutto questo non basta. La città si trasforma in giungla. L’impalcatura fittizia si sgretola. La fantasia, la memoria, l’intuito, non bastano più per orientarsi».

Quando chiedo qual è l’ultimo ricordo visivo che ha nelle mente, quello più ricorrente, Dongiovanni punta gli occhi color latte per terra, sembra quasi fissare un punto sull’asfalto. Resta in silenzio qualche secondo, prima di riprendere a parlare: «L’ultimo ricordo che ho, prima che l’interruttore si spegnesse, sono io che pedalo verso la masseria di mia nonna e le tegole rosse del tetto che si avvicinano sempre di più. All’entrata c’è una grande palma che fa tanta ombra e lì sotto mi aspetta il cane dei miei nonni. È grande e nero, con gli occhi bianchi. Mia nonna invece mi aspetta sull’uscio della porta, con capelli ricci tra il nero e il grigio. Accanto a lei mio padre, con un bel baffo folto. Questo è il ricordo che ho di loro. Mi ricordo com’è fatto il mare, più che altro mi ricordo quando il mare è agitato, con le onde, con quei pezzetti di schiuma, bianchi, che emergevano rispetto a quel… blu che io magari vedevo anche nero. Non ricordo com’è fatto il tramonto. Non ricordo più i lineamenti del volto di mio fratello, così come quelli di mia madre. Non ricordo più i loro occhi».

Qualche giorno dopo si ritorna in campo. Il ritmico fischiare dell’allenatore indica ai giocatori la strada per il rettangolo verde. I calciatori avanzano in fila indiana, ognuno con le mani sulle spalle di chi lo precede, ed entrano sul prato. Peluso si accende una sigaretta in panchina. Bortone ruggisce a centrocampo. Dongiovanni si concentra nel suo angolo. È un giorno come gli altri, c’è un’altra sfida da vincere.

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