Abolire i voti sotto il 4 aiuterebbe davvero gli studenti? | Rolling Stone Italia
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Abolire i voti sotto il 4 aiuterebbe davvero gli studenti?

Secondo l'assessore provinciale dell’Alto Adige Philipp Achammer, i temutissimi 2 e 3 non avrebbero alcun valore pedagogico e porterebbero gli studenti più fragili a demotivarsi ulteriormente. Forse, però, è una visione semplicistica

Abolire i voti sotto il 4 aiuterebbe davvero gli studenti?

Foto di Stefano Guidi/Getty Images

Nel dibattito italiano sull’istruzione esistono alcuni temi che sono diventati, negli anni, molto divisivi. Qualche anno fa era il “crocifisso nelle classi”, periodicamente si discute sulle prove scelte per l’esame di maturità, e un altro evergreen è il metodo di valutazione.

Nelle scorse settimane è stata molto ripresa dalla stampa la proposta dell’assessore provinciale di lingua tedesca dell’Alto Adige Philipp Achammer, che vuole abolire per legge i voti sotto il quattro; la proposta ha fatto discutere e ha spinto anche il ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara a dire la sua: «attenzione a non far crescere nell’ovatta i nostri ragazzi. Se non li abituiamo ad affrontare le frustrazioni che nella vita saranno tante facciamo il loro male», ha sottolineato il ministro.

Secondo Achammer, i temutissimi 2 e 3 non avrebbero alcun valore pedagogico e porterebbero gli studenti più fragili a demotivarsi ulteriormente. Il Ministero, però, non sembra aver accolto con grande favore l’idea: «quello che conta – ha spiegato ancora Valditara al Corriere – è che ci sia un criterio di valutazione serio che serva a studente e docente per far capire: stai andando bene, stai andando male, insomma il livello di preparazione e di rendimento in quel determinato momento». Più decisa la risposta di Paola Frassinetti, sottosegretaria all’Istruzione: «Ricordo nel mio liceo tanti 2 nelle versioni ma nessuno per questo faceva drammi. Il valore educativo non si determina togliendo i voti negativi ma sapendo indirizzare lo studente verso i percorsi a lui più consoni».

Alcuni commentatori hanno approfittato del momento per scagliarsi contro il sistema di valutazione italiano nel suo complesso, e, dopo che i giudizi in lettere sono stati adottati nella scuola primaria, anche qui non senza dibattiti infiniti, sembra di essersi ritrovati in un loop temporale. Si litiga per le stesse cose consapevoli che non cambierà niente, come in un eterno giorno della marmotta.

I voti numerici, dicono i detrattori, non farebbero altro che aumentare la pressione su degli studenti che già, come dimostra l’ultimo rapporto OCSE del 2015, sono tra i più stressati in Europa: il 70% dei nostri ragazzi prova preoccupazione tra i banchi di scuola. Questa correlazione, però, è un po’ troppo semplicistica. Non si spiegherebbe, infatti, come sistemi scolastici ugualmente regolati da voti e insufficienze non producano la stessa infelicità. Germania e Svizzera, che stando all’OCSE vantano studenti ben più sereni dei nostri, hanno sistemi di valutazione numerici, e nel caso svizzero, anche più selettivi rispetto a quello italiano (in seconda media, i percorsi didattici degli studenti vengono divisi in base ai loro voti in tedesco a matematica). Inoltre, in Germania bastano due insufficienze per ripetere l’anno. Forse togliere i 3 e i 2 aiuterebbe i ragazzi a non rinunciare in partenza al recupero, ma sicuramente non risolverebbe il problema.

Tanto più che il sociologo e presidente responsabile scientifico della fondazione David Hume Luca Ricolfi, nel libro Il danno scolastico (La nave di Teseo, 2021) scritto a quattro mani con Paola Mastrocola, ha indicato numerosi dati che proverebbero come una scuola con voti più alti non aiuti affatto, soprattutto i ragazzi più fragili. Comparando i voti di maturità con i risultati delle prove INVALSI si vede chiaramente che ci sono scuole diciamo più “indulgenti”: proprio qui, ha notato Ricolfi, le chance di migliorare la propria condizione sociale si riducono del 29%.

La questione quindi è molto più complessa e non può essere appiattita sulla contrapposizione “voti sì/voti no”, “insufficienze gravi/insufficienze meno gravi”. Forse occorrerebbe chiedersi se i nostri studenti si sentono davvero accompagnati nel recupero delle insufficienze: troppi pochi fondi sono stanziati per progetti di potenziamento pomeridiano, e il tempo pieno, soprattutto alle medie, aiuterebbe non poco chi viene da contesti problematici.

In più, gran parte della frustrazione degli studenti viene spesso da una preparazione non adeguata ricevuta gli anni precedenti: anche questo è oggetto del libro di Ricolfi e Mastrocola. Molti docenti di liceo e istituti superiori, in particolare dopo la pandemia, si trovano di fronte studenti che, pur avendo studiato, non acquisiscono i concetti perché non possiedono un metodo di studio. Oppure devono fare i conti con competenze mancanti che avrebbero dovuto acquisire alle medie o alle elementari, e questo non fa altro che aumentare la loro frustrazione davanti a un 3.

Senza contare che possibili riforme sul metodo di valutazione sono state devitalizzate e ridotte a etichette burocratiche. Le famose “competenze”, per lo meno nelle scuole secondarie, sono rimaste solo un’appendice dei programmi scolastici: sarebbe curioso sapere se qualcuno, al di là dei docenti, li legge.

Quindi è forse bene concentrarsi sul perché di un 3, e come riuscire a recuperare quello che non si sa: fare battaglie epiche contro il sistema per partito preso ha poco senso. Certamente, i 3 bisogna anche saperli dare: non c’è dubbio che molto dipende dall’empatia e sensibilità dei professori, qualità fondamentali per stabilire una relazione di fiducia con gli studenti: se si scegliessero dopo una valutazione del loro lavoro in classe, invece che con prove nozionistiche a crocette, le cose potrebbero migliorare. Ma forse ci piace svegliarci sempre con gli stessi problemi da risolvere, le stesse risposte e gli stessi schieramenti, in un loop infinito.