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La storia di Alaa Abdel Fattah è lo specchio dell’ipocrisia della Cop27

Il regime di al-Sisi tenta di ripulire la propria immagine all’esterno ospitando il vertice sul clima ma incarcera le sue menti più brillanti e indipendenti e viola sistematicamente i diritti umani, come dimostra l'ingiusta detenzione dell'attivista Alaa Abdel Fattah

NurPhoto/Corbis via Getty Images

Detenuto all’interno del carcere egiziano di Wadi al-Natrun, l’informatico e attivista Alaa Abdel Fattah il 6 novembre di quest’anno ha bevuto forse il suo ultimo bicchiere d’acqua. Abdel Fattah era in sciopero della fame già da sette mesi, in protesta contro le ragioni politiche della sua ultima condanna e fino all’inizio di novembre assumeva solamente 100 calorie al giorno – una tazza di tè con una goccia di latte e un cucchiaino di miele – ma ora ha smesso completamente di mangiare e di bere. «Alaa è pronto a portare la sua battaglia al livello successivo», ha detto nei giorni scorsi la sorella, Sana Seif. La scelta estrema dell’attivista coincide con l’inaugurazione della Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici che si tiene quest’anno nella località egiziana sul Mar Rosso di Sharm el-Sheikh. Questa decisione potrebbe portarlo alla morte, se non sarà liberato in tempo, proprio durante la Cop27, quando il suo Paese, già al centro di molte critiche per le violazioni dei diritti umani di cui è protagonista da tempo, avrà gli occhi del mondo puntati addosso. Lo stesso Abdel Fattah ha fatto sapere alla famiglia di aver deciso di intensificare «al momento opportuno» la lotta per la sua libertà e quella degli altri prigionieri politici. 

L’uomo, 40 anni, pensatore gramsciano oltre che sviluppatore di software, è stato una figura chiave nella primavera araba del 2011. Grazie ai primi blog ha ispirato una generazione di egiziani con i suoi scritti contro l’autoritarismo (in Italia è stato pubblicato da poco Non siete stati ancora sconfitti, un libro che raccoglie i suoi scritti). Arrestato già due volte sotto il vecchio presidente Hosni Mubarak – rovesciato dalla rivolta di piazza Tahrir – e poi sotto l’islamista Mohamed Morsi, nell’ultimo decennio Abdel Fattah ha trascorso la maggior parte del suo tempo in carcere. Nel 2013 è tornato in prigione condannato a cinque anni per avere partecipato a manifestazioni non autorizzate. Rilasciato nel marzo 2019 ha passato sei mesi in semilibertà, dovendo dormire in una stazione di polizia, per poi essere di nuovo arrestato a settembre, accusato di avere organizzato proteste di piazza contro il presidente Abdel Fattah al-Sisi. Una volta scaduti i due anni di detenzione preventiva nel dicembre scorso è stato condannato ad altri cinque anni di carcere per avere diffuso notizie false. Abdel Fattah ha quindi passato i primi mesi di detenzione nella prigione di Tora, al Cairo, per poi essere spostato a maggio, a 90 chilometri dalla capitale, quando aveva già smesso di mangiare. Può ricevere una visita al mese e inviare lettere alla sua famiglia una volta alla settimana. Chi lo ha visto di recente parla di una persona in grave deterioramento fisico. L’attivista, in questi anni, è diventato un simbolo di resistenza, ma allo stesso tempo la sua detenzione è stata utilizzata dal governo come monito per le future generazioni di oppositori. Per questo è difficile immaginare un lieto fine.

La sua storia, fatta di accanimento, condanne politiche e violazioni dei più basilari diritti umani, come tante altre ma più di altre, è esemplificativa del clima di oppressione a cui è soggetta la società civile in Egitto e allo stesso tempo è lo specchio dell’ipocrisia del regime di al-Sisi, che ora tenta di ripulire la propria immagine all’esterno ospitando il vertice sul clima, ma incarcera le sue menti più brillanti e indipendenti. L’Egitto da aprile sostiene di avere graziato e liberato almeno un migliaio tra condannati e persone in attesa di giudizio per reati di opinione, ma secondo le organizzazioni per i diritti umani ne rimangono in carcere almeno 60.000, tra attivisti, giornalisti, avvocati e membri di minoranze. Di questi, almeno 2.000 non hanno ancora ricevuto nessuna condanna. Nel frattempo, dietro le sbarre in Egitto si continua a morire, come è successo a inizio novembre ad Alaa el-Selmy, condannato per terrorismo e deceduto dopo due mesi di sciopero della fame, senza avere avuto accesso a cure mediche. Anche lui protestava contro le sue condizioni di detenzione, impossibilitato a vedere la propria famiglia e vittima di torture. Allo stesso modo non hanno smesso di funzionare i tribunali di emergenza con i loro processi farsa, le detenzioni in attesa di giudizio sono ancora misure a tempo indefinito – il caso di Patrick Zaki dovrebbe dirci qualcosa –, e le esecuzioni capitali non accennano a diminuire. Per tutti questi motivi Amnesty International ha accusato apertamente il governo egiziano di utilizzare il vertice sul clima come forma di propaganda per distrarre dalle preoccupazioni sui diritti umani e dal dissenso interno mentre l’economia è al collasso.

Nonostante l’Egitto si presenti come paladino dell’ambiente e portavoce dell’Africa alla Cop, le autorità del Cairo osteggiano l’apporto della società civile su questi temi da anni. La doppia faccia del governo egiziano è stata denunciata a ottobre da un rapporto di Human Rights Watch (Hrw) secondo cui i gruppi ambientalisti e i ricercatori locali sono repressi e ostacolati dagli apparati statali e la loro partecipazione alla Cop scoraggiata in un clima di «generale paura». Molti attivisti hanno denunciato nelle scorse settimane la difficoltà di partecipare alla Conferenza, tra accreditamenti difficili e costi di pernottamento alle stelle.

Non si ha più traccia, inoltre, di una lettera sul clima scritta dallo stesso Abdel Fattah e indirizzata alla famiglia. Il testo, che «parlava del riscaldamento globale a causa delle notizie provenienti dal Pakistan», secondo quanto spiegato da Abdel Fattah in seguito, non ha mai superato le porte del carcere, nonostante lo stesso attivista abbia detto di non avere menzionato il governo o la Cop. L’episodio fa però capire quanto il tema però sia delicato per l’Egitto, come anche chi ne parla.

«L’Egitto di Al-Sisi ha allestito un grande spettacolo di pannelli fotovoltaici e cannucce biodegradabili, ma in realtà il regime imprigiona gli attivisti e vieta la ricerca. Gli ambientalisti non dovrebbero stare al gioco», ha scritto a questo proposito di recente la giornalista e saggista canadese Naomi Klein in un articolo sul Guardian molto ripreso (lo ha tradotto in italiano Internazionale e si può leggere qui). Klein ha parlato apertamente di «greenwashing applicato a uno Stato di polizia» e per questo ha invitato gli attivisti a non fare sconti sul tema dei diritti perché interconnesso a quelli ambientali. «Se non si difendono le libertà politiche», ha affermato, «non è possibile un’azione climatica significativa. Né in Egitto né in nessun altro Paese».

Un messaggio che hanno già abbracciato molti attivisti per il clima e non solo. Greta Thunberg ha annunciato che non parteciperà alla Cop27, definendo la conferenza come una forma di greenwashing e invitando i suoi follower su Twitter a firmare una petizione che condanna l’abuso dei diritti umani in Egitto. Secondo l’appello «l’Egitto rischia di compromettere il successo del vertice se non lo fa affrontando urgentemente le restrizioni arbitrarie in corso sulla società civile». Thunberg si è poi espressa apertamente sul caso di Abdel Fattah, intervenendo anche al sit-in che la famiglia dell’attivista sta portando avanti a Londra, davanti al Foreign Office, per chiedere l’accesso consolare all’uomo, che è da poco anche cittadino britannico, e il suo rilascio. Nei giorni scorsi alla mobilitazione globale per la liberazione di Abdel Fattah si sono uniti anche quindici premi Nobel, che hanno firmato una lettera aperta in cui invitano la comunità internazionale a «non dimenticare» le migliaia di prigionieri politici detenuti nelle carceri egiziane. Chi partecipa alla Cop, hanno scritto, non può fare silenzio su queste violazioni.

Il governo egiziano è però al lavoro da tempo per rendere la Conferenza il meno inclusiva possibile e abbassare il volume delle critiche. La stessa scelta di tenere i negoziati a Sharm el-Sheikh, in un resort di lusso, militarizzato e lontano dalle piazze del Cairo, denota i timori del regime. L’allerta è alta in tutto il Paese e molti cittadini hanno denunciato un importante dispiegamento di forze in particolare nella capitale, con posti di blocco nelle piazze principali e agenti che controllano i telefoni e gli account social dei fermati. Secondo le organizzazioni per i diritti umani dalle 120 alle 200 persone sarebbero già state arrestate in tutto il Paese in seguito agli appelli a manifestare l’11 novembre contro le autorità del Cairo e la loro ipocrisia. Le proteste saranno possibili, in un formato molto ridotto, solamente in una zona ad hoc di Sharm.

Mentre lo spazio per il dissenso è stato così quasi annullato, più di qualcuno si è chiesto se non sia stato un errore affidare l’organizzazione della Cop all’Egitto. Per esempio, Giorgio Brizio, voce italiana dei Fridays For Future, ha elencato in un post Instagram tutti i problemi di questa Cop, dall’inclusività ai diritti umani, e non ultimo il fatto che uno degli sponsor principali dell’evento sia Coca Cola, una delle multinazionali più inquinanti al mondo che ha messo nel mirino del suo business il Medio Oriente. In molti, tra attivisti e giornalisti, hanno deciso di non seguire il vertice dall’Egitto per protesta e il Parlamento Europeo ha votato un emendamento in cui chiede la liberazione dei prigionieri politici come Abdel Fattah ma domanda anche all’Unfcc, l’organo delle Nazioni Unite che organizza la conferenza, di sviluppare dei requisiti umanitari minimi per scegliere i Paesi che possono ospitare la Cop.

Intanto però, perché la Conferenza di Sharm el-Sheikh non sia solo un “bla bla bla” e segni un passaggio importante per la lotta climatica, è necessario ricordare storie come quella di Alaa Abdel Fattah, di Giulio Regeni prima di lui, e di tanti come loro, e pretendere che l’ambientalismo vada di pari passo con i diritti. Senza uno spazio pubblico aperto, che favorisca la ricerca e il progresso, e che sorvegli gli impegni presi dai governi, in Egitto come in altri Paesi, non saranno possibili i cambiamenti radicali necessari per affrontare la crisi climatica.

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