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Andrea Staid: «Sbalordito dal bigottismo di chi attacca gli attivisti climatici»

Abbiamo intervistato l'antropologo Andrea Staid per parlare di 'Essere natura', il suo ultimo libro: una chiacchierata su colonialismo, crisi climatica, ecocidi e non solo

Alluvioni, trombe d’aria, grandinate e siccità. In Italia nel 2022, secondo il bilancio dell’Osservatorio CittàClima di Legambiente, si sono registrati 310 fenomeni meteorologici che hanno provocato danni e 29 morti. Nonostante un significativo aumento degli eventi meteo-idrogeologici (+55% rispetto al 2021) il dibattito pubblico sulla crisi climatica nel nostro paese si è concentrato soprattutto sulle azioni di alcuni gruppi ambientalisti, anche grazie ai toni allarmistici del governo e di buona parte della stampa. Un’opportunità per andare oltre il fuorviante referendum sulla vernice (lavabile) utilizzata dagli attivisti per il clima è la lettura di libri come Essere natura (UTET, 2022) di Andrea Staid, docente di antropologia culturale alla Naba di Milano e all’Università di Genova. Nel saggio l’autore mette in chiaro fin dall’introduzione che «la natura non è un luogo, ma un organismo vivente, e noi come specie ne facciamo parte. Sembra una piccola cosa da comprendere, ma è fondamentale per ripensarci nel qui e ora». Questo ripensamento – si spera collettivo – non è realizzabile senza il confronto con altri modi di vivere per troppo tempo liquidati come “primitivi”. Con Staid abbiamo affrontato alcuni dei temi che rendono Essere natura uno dei testi più interessanti degli ultimi mesi.

Cosa si intende per dualismo tra natura e cultura?
In Occidente abbiamo strutturato questa dicotomia che da una parte vede qualcosa che è naturale come non umano, e dall’altra ciò che è culturale come una costruzione umana. Questa dicotomia è però una cosmologia strettamente europea che abbiamo portato in giro per il mondo. Si tratta di una visione duale che viene attaccata e decostruita da quelle che sono le scoperte della stessa scienza occidentale degli ultimi trent’anni. È infatti illuminante vedere come la stessa antropologia – la disciplina che studio e di cui faccio parte – che si fonda nel fine Ottocento ed è caratterizzata da questa separazione natura/cultura, sia diventata adesso una di quelle discipline, insieme alla biologia, paleoantropologia e fisica, che ci parla invece dell’abbattimento delle frontiere di specie. Un altro aspetto determinante è la critica al colonialismo e al ruolo ricoperto dall’antropologia. La mia disciplina è stata in parte quella che ha delimitato i selvaggi (quelli fuori dall’Europa) e i civili, cioè gli europei. Il mio lavoro si pone proprio nella decostruzione e distruzione di questo immaginario che separa l’umanità in popoli della natura e popoli della cultura.

Perché è ancora necessario parlare del colonialismo?
Diciamo che prima di tutto il colonialismo nel nostro paese, in Italia, è un rimosso e quindi già solo per questo è doveroso farci i conti e capire cosa è stato. Si parla di Antropocene ma giustamente molti ci fanno notare, specialmente le popolazioni indigene, come non sia colpa di tutti gli uomini se il mondo sta collassando. Il colonialismo è stato proprio quel movimento di depredazione, guerra e sfruttamento che ha portato l’ideologia dell’estrattivismo che considera la natura un oggetto, qualcosa da addomesticare, distruggere, da cui trarre benefici per l’essere umano e soprattutto capitale. Il colonialismo, e non sono l’unico a dirlo per fortuna, è uno dei motori della distruzione eco-sistemica oltre che ovviamente della distruzione di comunità umane. Difatti se pensiamo alla natura come qualcosa di indiviso dal concetto stesso di umano capiamo bene che, quando si parla di disastro eco-sistemico del colonialismo, parliamo anche della distruzione di tante comunità umane. Per questo motivo ho voluto ribadire in “Essere natura” l’importanza di avere uno sguardo ecologico decoloniale che sappia fare i conti da una parte con il colonialismo storico e dall’altra con il neocolonialismo e l’estrattivismo contemporaneo perché purtroppo non è finita. Il colonialismo è ancora in atto e ci sono nuovi partner con l’Occidente: uno di questi è la Cina che sta colonizzando tutte le terre native che sono rimaste nella parte non soltanto dell’Asia, ma anche dell’Africa insieme ai soliti noti (Stati Uniti ed Europa).

C’è una discussione nel mondo accademico su questi temi?
Purtroppo nell’accademia il dibattito su questi argomenti non è così importante come dovrebbe essere. Ci sono dei testi autorevoli che sono considerati delle fondamenta di questi ragionamenti come “Oltre natura e cultura” di Philippe Descola, “Come pensano le foreste” di Eduardo Kohn e le opere di Anna Lowenhaupt Tsing e Donna Haraway. A me sembra che molto spesso questi libri – non parlo degli autori e delle autrici che li hanno scritti – diano vita a dibattiti un po’ sterili dove si parla tanto per costruire carriere e non per mettersi in cammino verso un cambiamento sociale, politico, etico e culturale.

Un’altra questione centrale nel tuo libro è il concetto di ecocidio.
Se prendiamo a prestito dei modi di vedere la natura nativi – come possono essere quelli delle popolazioni delle Hawaii, dell’Amazzonia brasiliana o degli aborigeni australiani – pensiamo la natura come un intreccio di vite e questo significa che quando abbiamo a che fare con un giaguaro, un albero, un fiume o una montagna ci stiamo relazionando con dei soggetti, con delle persone addirittura. Pertanto se inquino un fiume o distruggo una montagna per farci la TAV o per estrarre oro, sto commettendo un ecocidio perché sto facendo qualcosa contro dei corpi vivi, contro dei soggetti. L’ecocidio grazie a quelle che sono anche le lotte indigene contemporanee viene visto come una specie di nuovo pensiero giuridico per difendere l’ambiente e quello che ci circonda. La distruzione di una foresta, l’estrazione di petrolio in Amazzonia o di minerali nel Cerro Rico di Potosí in Bolivia è un ecocidio, non soltanto inquinamento.

Cosa pensi delle recenti proteste degli attivisti per il clima?
Ho vissuto con enorme interesse queste iniziative. Prima di tutto non sono io, che ormai sono più grande della maggior parte delle persone che fanno queste azioni, a doverle giudicare da un punto di vista morale. Politicamente penso che siano metodi anche nuovi per portare un po’ di attenzione su un tema fondamentale come quello della crisi climatica. Sono rimasto sbalordito invece dal moralismo bigotto di chi attacca queste donne e questi uomini in rivolta (che poi vengono sempre chiamati ragazzi, una cosa che mi ha sempre dato fastidio quando ero io ragazzo) come se stessero attaccando la società nel suo cuore pulsante. A mio avviso queste azioni, oltre a essere interessanti dal punto di vista della contestazione e della disobbedienza civile, soprattutto quando hanno colpito opere d’arte come quella di Andy Warhol, sono state delle neo avanguardie artistiche che hanno fatto resuscitare delle opere morte, museificate. Anche per questa ragione sono assolutamente solidale con gli attivisti per il clima.

Noti anche tu la tendenza, alimentata da media e politica, di scaricare le responsabilità della crisi climatica sui comportamenti delle singole persone?
Il mio pensiero al riguardo è quello de L’uomo in rivolta di Albert Camus, nel senso che il cambiamento deve sicuramente partire da noi perché è un processo che ci può portare a un qualcosa di importante. Camus diceva «mi rivolto dunque siamo». Detto questo però, sia chiaro, il problema non sono solamente le scelte dei singoli. Il problema sono le scelte delle grandi compagnie e delle multinazionali estrattiviste. È decisivo costruire delle lotte che siano veramente conflittuali contro i grandi colpevoli che appunto non sono i singoli cittadini. Certo, bisogna evitare il bicchiere di plastica cosi come è consigliabile non lasciare i rubinetti aperti. Ma c’è chi vuole andare su Marte per divertirsi e ci sono personaggi che si ergono a rappresentanti anche di questo nuovo mondo contro il cambiamento climatico e poi si muovono con i jet privati per andarsi a mangiare le orecchiette in Puglia quando vivono a Milano. È anche una questione di classe e può essere risolta soltanto con delle politiche collettive e con un immaginario sul futuro.

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