All eyes on quella stron*a della Meloni | Rolling Stone Italia
#jesuisgiorgia

All eyes on quella stron*a della Meloni

Campeggia ancora lì, tra uno spritz e un altro, la grafica con scritto "All eyes on Rafah", prima che le 24 ore di vita di una storia di Instagram se la portino via insieme. E intanto l’unica che sa come sfidare l’algoritmo è la Giorgia nazionale, che studia da attrice la scenetta perfetta

All eyes on quella stron*a della Meloni

Il momento della stretta di mano tra Vincenzo De Luca e Giorgia Meloni

Campeggia ancora lì, tra uno spritz e un altro – il picco di condivisioni è arrivato ieri proprio all’ora dell’aperitivo, al momento l’hanno diffusa quasi quaranta milioni di persone – la grafica con scritto “All eyes on Rafah”, tutti gli occhi su Rafah, prima che le 24 ore di vita di una storia di Instagram se la portino via insieme, forse, alle sue buone intenzioni.

L’abbiamo vista, dai. Numeri alla mano, l’abbiamo diffusa noi stessi, e se non siamo stati noi è stato un amico, e se non è stato neanche lui è stato l’influencer di turno, o se non è niente di tutto questo viviamo su Marte, abbiamo boicottato i social, boh. Fatto sta che forse neanche il fotografo malese che l’ha creata in buonafede – @shahv4012, si può risalire a lui facilmente, ne ha realizzate altre senza successo – si aspettava una risposta così. Invece no, ce l’ha fatta: ha mandato virale ciò che succede a Rafah, dove un milione di rifugiati palestinesi è sotto le bombe, e l’altra notte un attacco sciagurato dell’esercito israeliano ha provocato 45 morti. È un’atrocità e, davvero, in Italia se ne parla poco, parte dell’informazione è sbilanciata a favore di Israele, con cui è parecchio cauta per motivi politici, nella misura in cui su molte bolle social – e in certe piazze, e nelle università – si pensa invece l’esatto contrario. In sintesi: dibattito polarizzato, gente che si dà ragione a vicenda, guerre di religione, doppie spunte blu su tutto.

Ciò che non avevamo ancora visto prima era un’altra cosa: l’algoritmo che si mangia la guerra. Non ce l’aveva fatta in Ucraina, a imporre le sue regole di comunicazione immediata, semplificazioni e misere soglie d’attenzione, perché forse scaldava meno il cuore della gente, ma ci è riuscito con la Palestina, forse perché più pop, o chissà. È un bene che se ne parli, eh. Ma una grafica che dura un giorno e invita a fare attenzione su ciò che sta succedendo a Rafah circondata, di nuovo, dalle foto dell’aperitivo, da parte di chi non si è mai interessato alla questione se non ora, se non per moda, posizionamento, è inutile. Quanto costa prendere posizione così da casa? Niente. È un altro #JeSuisCharlie, e allo stesso modo chi l’ha condiviso è facile l’abbia fatto per FOMO, e comunque è improbabile che si attivi nei prossimi giorni per farsi davvero un’idea. Per carità, non si biasima. Se decidesse di farlo, probabilmente tornerà su Instagram, e allora tanti auguri: altre grafiche che appiattiscono una guerra secolare a due slide di spiegazioni, influencer che si fingono attivisti per ritorno personale, gente che tifa (ehm) per Israele, slogan.

Insomma, “All eyes on Rafah” non è l’informazione scomoda che vince sull’algoritmo, come crediamo quando troviamo post e storie in cui le lettere della parola “Palestina” sono sostituiti da numeri, asterischi, angurie; è il contrario, il niente senza alcune profondità o spessore che si mangia una tragedia. Siamo noi, ecco, che diciamo di esserci; non un supporto concreto.

Ma d’altronde è l’algoritmo, bellezza!, e si sta mangiando anche la campagna delle Europee, con i politici, specie i nostri, ben disposti ad assecondare le sue regole per avere, appunto, tutti gli occhi addosso. C’è Salvini, per dire, che da giorni sui social sta combattendo una battaglia surreale contro le promessa distopica che ci farebbe l’Europa, contrapponendo loro in una serie di meme gli Antichi Valori Italiani – tra gli ultimi, quello sul tappo delle bottigliette che non si stacca, grossomodo sono tutte falsità, inesattezze o semplificazioni, ma tanto non c’è tempo per pensarci.

Giorgia Meloni, che invece ha capito meglio di tutti come trasformare la destra in meme sia la chiave per sdoganare il post-fascismo, ieri ha firmato il suo capolavoro, presentandosi dal presidente della Campania, De Luca, con un «quella stronza della Meloni, come sta?». Citava un’uscita (privata, rubata) del presidente stesso, che aveva commentato con un «lavora tu, stronza!» un’accusa partita a sua volta dalla premier, che aveva biasimato una manifestazione di lui dicendo che «se si lavorasse invece di fare le manifestazioni, si potrebbe ottenere qualche risultato in più». Non ci voleva Repubblica per capire che la scenetta di ieri era stata ampiamente preparata, con Meloni che come un’attrice si era studiata la mimica, la testa bassa, lo sguardo e la battuta da dire non appena avesse incontrato De Luca, peraltro in una situazione istituzionale.

Nel dubbio, il quotidiano ha rivelato che in mattina lo staff di Meloni aveva avvisato i giornalisti (venghino siori, venghino!), dicendo loro che a breve il Capo si sarebbe preso la propria vendetta, mentre il resto l’hanno svelato le riprese puntuali del capo ufficio stampa di lei, Fabrizio Alfano, che chissà l’emozione e la paura di sbagliare, e il fatto che il video in questione sia stato subito ripreso dal profilo di Atreju, con su la frase «Giorgia, insegnaci a vivere». Nel giro di poche ore, con una catena di coordinamento spaventosa, era già stato consacrato a ciò per cui era nato: un meme.

Cosa resta? Una Presidente del Consiglio che usa gli incontri istituzionali come giardinetti, per togliersi i suoi sassolini dalle scarpe, fare campagne elettorali e trasformare le strette di mano con gli avversari politici in contenuti virali, per fare voti; e una guerra che diventa una grafichetta da 24 ore e via, il gioco di una sera, un trend. Tutti gli occhi addosso, sì, ma su di noi che creiamo e condividiamo tutto questo. Mica sulle elezioni, o sulle bombe.