18 anni dopo, cosa ci resta di Marco Pantani? | Rolling Stone Italia
Politica

18 anni dopo, cosa ci resta di Marco Pantani?

Immedesimarsi in Pantani voleva dire immaginare come, dopo le scalate, sarebbe per forza di cose arrivata la discesa: bastava solo continuare a pedalare. Ma a 18 anni dalla sua morte, i nodi da sciogliere sono ancora troppi

18 anni dopo, cosa ci resta di Marco Pantani?

Foto di Pascal Rondeau /Allsport via Getty

Nel diciottesimo anniversario della morte di Marco Pantani, il grigio del mistero continua a sporcare i colori. A partire dai toni scuri della sera del 14 febbraio 2004, quando al residence “Le Rose” di Rimini venne ritrovato il corpo senza vita del ciclista romagnolo, sollevando già i primi dubbi sulla dinamica della morte.

L’autopsia accertò che il decesso era stato causato da un edema polmonare e cerebrale, conseguenza di un’overdose di cocaina e psicofarmaci: una tesi mai accettata dalla madre Tonina Belletti, che da allora si è impegnata affinché la magistratura facesse luce sulla scomparsa del figlio. E che ancora oggi continua a combattere per avere giustizia e dare pace al suo cuore.

Pantani, sorriso sprezzante ma timidezza acuta nella dimensione più garbata dell’intimità, ha saputo infiammare la passione della folla con la grandezza dell’anti-divo che fugge dalle idee stereotipate, dalla perfezione dell’atleta impeccabile. Carattere fragile, usurato dalle umane debolezze, e un’apparente normalità che al suo interno riusciva a nascondere un reticolato di complicazioni. Il cuore avido di ossigeno per la corsa ma generoso di attenzioni per la sua gente. Quella di Pantani non è stata e non è soltanto una storia a due ruote. È stato lo sport nella sua grandezza, la musica delle radioline negli intervalli dei collegamenti con le tappe e sul percorso, la politica negli schieramenti tra tifosi e detrattori.

La gloria dopo la vittoria, nel 1998, di Giro d’Italia e Tour de France mescolata alla rabbia per l’esclusione dal Giro nel 1999 a causa della concentrazione di globuli rossi superiore al consentito, nonostante il corridore non fosse risultato positivo al controllo antidoping.

In strada ha trascinato per ripide salite un popolo di tifosi e appassionati che all’inizio degli anni 90 si era ritrovato a far fronte con il cambiamento radicale del mondo post Muro di Berlino e aveva subito gli schiaffi di Tangentopoli, scoprendo un sistema malato. Immedesimarsi in Pantani voleva dire immaginare come, dopo le scalate, sarebbe per forza di cose arrivata la discesa: bastava solo continuare a pedalare.

Oggi che dalla morte de “Il Pirata” (il soprannome affibbiatogli per aver coperto la testa con una bandana) sono passati diciotto anni, la corsa dei processi ha imboccato un altro giro. A novembre 2021, dopo le dichiarazioni rilasciate a gennaio 2020 dall’ex pusher Fabio Miradossa, fornitore di cocaina di Pantani – lo stesso che nel 2019 dichiarò come il ciclista fosse stato ucciso –, la Procura della Repubblica di Rimini ha optato per la terza riapertura dell’inchiesta per omicidio contro ignoti.

La prima indagine per il reato di morte come conseguenza di altro reato, nel 2005, aveva portato alla condanna per spaccio come causa dell’overdose dello stesso Miradossa e di Ciro Veneruso, rispettivamente a 4 anni e 10 mesi e 3 anni e 10 mesi con patteggiamento. La seconda tranche dell’indagine, a seguito di nuove perizie medico legali, aveva confermato nel 2016 le risultanze della precedente, escludendo ancora una volta come la morte di Pantani fosse avvenuta per omicidio.

Pochi mesi fa, la scelta di riaprire l’inchiesta a seguito dell’audizione del pusher davanti alla Commissione Antimafia e, in precedenza, dei particolari sulla vicenda rivelati da Renato Vallanzasca, nome di spicco della mala milanese che in passato aveva riferito quanto appreso in carcere da detenuti vicini alla Camorra sull’esclusione di Pantani dal Giro del 1999. Agli atti si è aggiunto il memoriale fornito dalla famiglia Pantani – redatto dai nuovi legali – che ha fornito ulteriori spunti di indagine. Una delle piste per far luce sulla scomparsa del corridore, come riferito dalla madre Tonina, riguarderebbe le due escort, accompagnate da un tassista al residence “Le Rose” la mattina in cui Pantani è morto. Nei giorni scorsi, l’autista è stato rintracciato e sentito per tre ore dai Carabinieri di Rimini, fornendo elementi che darebbero corpo e senso alla nuova indagine.

Invero, è difficile immaginare che la terza parte dell’inchiesta sulla morte di Pantani possa portarci un qualche tipo di novità. Identificare, rintracciare e ascoltare le due escort – che potrebbero essere state le ultime due persone ad aver visto in vita per l’ultima volta il ciclista – non sarà facile dopo diciotto lunghi anni di vicoli ciechi, tesi sempre nuove e fake news. Immaginare che la deposizione del tassista possa far ipotizzare nuovi reati (tra cui l’omissione di soccorso) è un’ipotesi che, ovviamente, si incastra ancora nell’alveo dell’eventualità.

La speranza di mamma Tonina, però, è ancora viva. Come è vivo il ricordo di Marco Pantani in sella alla sua bicicletta, vestito di rosa e giallo: i colori giusti per dipingere una delle storie più belle – e più assurde – di uno sport e di un’Italia che non l’ha ancora dimenticata.