Per chiudere la forbice della disuguaglianza si parta da internet | Rolling Stone Italia
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Per chiudere la forbice della disuguaglianza si parta da internet

Cristiano Godano ha un paio di domande per Mark Zuckerberg. E anche per noi: perché accettiamo che dalla rete passi un enorme trasferimento di ricchezza? «Loro sempre più facoltosi, noi raggirati e impoveriti»

Per chiudere la forbice della disuguaglianza si parta da internet

Cristiano Godano

Foto: Guido Harari

Venerdì 29 maggio Ignazio Visco, in seno al rituale delle Considerazioni finali del Governatore della Banca d’Italia (appuntamento fisso che fotografa lo stato della situazione economica e sociale del nostro Paese ogni anno), ha detto che «l’esito del coronavirus rischia di aumentare le forbici fra chi possiede di più e chi possiede di meno». Una frase fra altre, tutte piuttosto deprimenti, riportate dai media. Inutile dire che le previsioni sono disastrose, con una perdita di 9 punti percentuali di PIL nella migliore delle ipotesi.

Quando faccio i miei incontri solitari in pubblico (un mix di musica e chiacchiere), capita che il mio interlocutore mi ponga quel tipo di domanda che mi stimolano risposte inclusive di tale metafora delle forbici, per suggerire confronti e paragoni. È una cosa che mi pare di poter dar sempre per scontato (ovvero che tutti sappiano dell’uso che se ne fa per descrivere la nostra società attuale), ma poi dalle facce che vedo di fronte a me mi rendo conto che è comunque bene spiegarmi un po’, giusto per far toccare meglio con mano. Sociologi e saggisti vari, opinionisti e giornalisti in gamba l’hanno da tanto tempo ormai introdotta per mettere in evidenza la lenta e ineluttabile scomparsa della classe mediana. Se immaginate un bel paio di forbici aperte, visualizzate di certo i due lati taglienti in simmetrica contrapposizione fra di loro, spalancati con acuminata tensione sul vuoto che c’è nel mezzo: quel vuoto rappresenta l’assenza della situazione mediana.

Cosa si intende con situazione mediana? Ricordiamo ciò che eravamo abituati a considerare essenza fondante dei nostri consessi sociali: l’esistenza dei poveri e dei molto poveri, quella dei ricchi e dei ricchissimi, e quella di chi non era né povero o poverissimo, né ricco o ricchissimo, ovvero, per l’appunto, la classe mediana. Un alveo estremamente capiente per categorie variegate, né particolarmente agiate, né particolarmente disagiate. Mi sembrerebbe riduttivo riportare alla memoria il concetto di borghesia, che probabilmente nel corso degli anni recenti è stato visto, rivisto e corretto in molti modi da sociologi e filosofi e commentatori vari, e altrettanto probabilmente ridimensionato, attitudinalmente vilipeso o deriso, sperabilmente cancellato e dichiarato morto, e infine necessariamente riconsiderato per evidente sua presenza dura a morire nonostante tutto: proprio per tali motivi direi che sarebbe meglio continuare a tenerci generici, pensando a una variegata mistura di persone più o meno agiate senza eccesso o con un eccesso non eccessivo. Qualcuno direbbe: ceto medio. Talmente variegata che è verosimile io possa dar per scontato che fra chi mi sta leggendo la grande maggioranza senta di averne fatto parte e/o di farne parte, o per propri meriti o grazie a papà e mamma.

In questa situazione da forbice quello che agli occhi degli osservatori è evidente da tempo (lo è di sicuro anche ai miei, e non penso di essere il solo, seppur non si sia secondo me in tanti, non almeno con la consapevolezza agghiacciante che dovrebbe invece appartenere a moltissimi) è che una percentuale mostruosa di ricchezza del pianeta (l’80% è cifra sufficientemente sensata) è appannaggio di una minoranza mostruosamente risicata: butto lì un 10%, considerando un 5% di ricchi talmente ricchi da non poter nemmeno comprendere cosa voglia dire (quel tipo di vertigini che si hanno quando ci rendiamo conto delle grandezze dell’universo e di cosa siamo noi e la nostra preziosa Terra, infinitesimali seppur gloriosi granelli, all’interno di una mastodontica galassia. Che per inciso è una delle centinaia di miliardi esistenti… Mi tremano le mani al solo scriverne) e un 5% di ricchi veri, detentori di patrimoni che sappiamo sì comprendere, ma che ci fanno lo stesso rabbrividire. Credo che quel 10% sia una cifra non peregrina. La consapevolezza di cui sopra dovrebbe essere agghiacciante perché se tale fosse non solo ci si chiederebbe come sia possibile che ci siano sul pianeta queste discrepanze così marcate e, per certi versi, per quanto non mi piaccia pensarla così, immorali; ma anche si cercherebbe di porvi rimedio. (Vorrei per un attimo tornare a Visco e ricordarvi che purtroppo queste forbici sono destinate a aumentare dopo il coronavirus. Ecco: spero che almeno il 10% per cento di chi mi legge, tanto per stare bassi come prima, non ne prenda solo atto con sufficienza e lasci correre, ma abbia un moto interiore di sdegno autentico, possibilmente volto a “far qualcosa” in un futuro prossimo nella perfetta consapevolezza che potrebbe essere impossibile).

La cosa che spiega per bene la metafora della forbice è che il restante 90% della popolazione si spartisce il 20% delle ricchezza globale (sottolineo ancora: sono cifre inventate, ma verosimili). A condizioni più accettabili una discreta percentuale di quell’80% di ricchezza (diciamo banalmente la metà? Diciamolo) dovrebbe essere sparpagliata fra le classi appartenenti al 90% appena nominato, di modo che la distribuzione del reddito fosse visibile su un ipotetico diagramma attraverso una retta crescente abbastanza lineare e progressiva. Stando invece le cose come vi ho detto risulta “dimostrato” che manca la situazione di mezzo, e la retta è in realtà un’appariscente spezzata. Il 90% della popolazione dunque, mica inezie, non è particolarmente ricca, non è nemmeno particolarmente benestante, e tende semmai a una situazione di medio o medio-bassa condizione sociale (certo, in quel 90% di gente benestante secondo i parametri comuni ce n’è, ma si tratta di benestanti ben lontani dalla ricchezza di quelli appartenenti a quel secondo 5% detto poco sopra).

Non sono un sociologo né un economista e temo di star per dire qualcosa di attaccabile da più parti, ma secondo me di questa situazione si possono anche (ma azzarderei soprattutto) ringraziare la tecnologia e internet (sento gli squilli di tromba di coloro che sorridono alla mia sintetica e ingenua semplicità, pensando ad esempio allo strapotere della finanza che non ho nominato). Non motiverò più di tanto questa sensazione: la si prenda per quel che è. Nelle prossime righe che si susseguiranno semmai spererò di raccattare qualche consenso in più.

In internet la maggior parte di ciò che accade è sostanzialmente gratis. E non alludo al fatto che “loro” (Bezos, Zuckerberg e compagnia bella) ci regalano tante belle cose coi prodigi della rete (ed è pur vero, anche se a un costo seppur piccino che è quello degli abbonamenti), ma che la stragrande maggioranza delle attività (le nostre) che passa per di lì è remunerata in modo ridicolo o nullo. E d’altronde la tecnologia sta per rendere inutili molti lavori finora dati per scontati: ci penseranno i computer a svolgerli. Medici, avvocati, commercialisti, neanche loro saranno al riparo, e io personalmente non ho consigliato a mio figlio di fare una di quelle facoltà (quelli come me li si chiamava luddisti: magari lo sono anche io, e ci mancherebbe… nel caso saprò fare ammenda).

Se la gente si volesse rendere conto che ogni nostro click è registrato da “loro” per il loro business multimiliardario (con “ogni” intendo esattamente ogni click che noi facciamo quando passiamo da una pagina all’altra, da moltiplicare per i miliardi di persone che usano internet, tipo in questo medesimo istante. Nel prossimo istante i click saranno tutti diversi, e così via, istante dopo istante, minuto dopo minuto, ora dopo ora, giorno dopo giorno: tutti registrati e catalogati), se la gente si volesse rendere conto di ciò, dicevo, la discrepanza potrebbe essere ridimensionata, perché si potrebbe ad esempio pretendere che quei click venissero remunerati (non è una mia intuizione: lo lessi già una decina di anni fa almeno in un libro di Jaron Lanier). Lo so, è probabilmente impossibile, eppure proprio grazie ai nostri click Zuckerberg e compagnia bella si sfondano di benessere vendendo i nostri profili dettagliati alle imprese di tutto il mondo, che poi ci vendono i loro prodotti alimentando il loro business e fomentando il nostro festoso consumismo. Si dovrebbe dire a Mark, almeno per togliersi uno sfizio: «Ehi Mark, visto che ti piace tanto monitorare tutta la mia attività in rete per profilarmi e vendere le informazioni su di me, che ne dici se ogni mio click me lo paghi? Io faccio arricchire te coi miei polpastrelli compulsivi, tu mi riconosci una percentuale… Ti fai pur sempre i cazzi miei, no?».

Non vado oltre (non è un luogo per digressioni simil-saggistiche questo) se non dicendo in maniera molto succinta che la mia ingenuità potrebbe apparire forse meno tale se scrivessi che penso che internet sia una opportunità enorme per una risicata percentuale di popolazione che lo frequenta, quella in grado, ad esempio (ma è solo il primo che mi viene in mente), di inventarsi la start-up del secolo. Ma non tutti nascono nerd e potenziali geni, e per noi poveri sciocchi internet è solo un luogo dove ci vien preso aggratis ogni lavoro che per di lì debba passare (sono un musicista e ne so qualcosa, ok?). Oh certo, “voi” (nel senso di “loro”) ci offrite un miracolo: una tecnologia mirabile che ci fa fare tante fantastiche cose! Lo sappiamo molto bene. Ma è gratis fin dove lo decidete “voi”, perché se ad esempio io voglio far arrivare un mio post tramite i miei social a più gente del normale, “voi” questo mio desiderio me lo fate pagare, eccome se me lo fate pagare, con le vostre promozioni del cazzo. Non dovrebbe essere gratis come tutto il resto? È pur sempre un post come gli altri no? «Vorrei solo farlo arrivare a un sacco di gente in più… Credo di aver trovato le parole chiave che sapranno mettere in agitazione gli algoritmi! Ho il titolo giusto! Perché devo pagare per farlo arrivare a più gente?».

Va da sé: sono domande retoriche… Chiediamoci piuttosto perché accettiamo tutto ciò senza battere ciglio… Anzi: fregandocene. Perché ce ne freghiamo? Per quel poco che mi è parso di capire, lo dico en passant, ci fu una levata di scudi sdegnosa di molti contro Immuni, l’app che dovrebbe o avrebbe dovuto seguire i nostri spostamenti per fronteggiare il virus: è grottesco come su quella cosa molti si siano indignati – ovviamente perché fomentati – e ben pochi si rendano conto di quello che ho appena detto a proposito di chi ci sta rendendo tutti sempre più poveri. «Ma che m’importa se mi controllano in rete? Non ho nulla da nascondere»: questa la reazione standard. E no, non si tratta di cosa nascondiamo, si tratta di quanto preciso è il ritratto che si fanno di noi, perché di noi sanno tutto, e con questo tutto loro si arricchiscono e noi siamo sempre più scaraventati sul lato povero della forbice. A me vien da pensare che a queste condizioni sia prevedibile prima o poi una esplosione della frustrazione sociale già in evidente fibrillazione, anche se non è facile immaginare che sarebbero in molti a prendere di mira gli immorali detentori di tutta quella ricchezza sottratta a tutti noi come ho detto sopra: verosimilmente ne farebbero semmai le spese, in modo cruento intendo dire, i governi non populisti (almeno in una prima fase di ribellione) incapaci di contenere l’odio montante ben alimentato da un certo modo antagonista di fare politica e purtroppo diffuso nel mondo (e in alcuni Paesi già protagonista), che a me per inciso non piace per nulla e che anzi impaurisce. Sapete: quel tipo di politica che inventa nemici immaginari (di questi tempi sono i migranti, e da qualche settimana nello specifico i neri tout court: avete notato come il razzismo stia tornando lentamente?). Ricordo le parole di Visco: «L’esito del coronavirus rischia di aumentare le forbici fra chi possiede di più e chi possiede di meno». Fino a quando questo verrà tollerato dalla sempre più crescente massa di gente frustrata?

Mi fermo qua (mi si sarebbero aperte decine di specificazioni ed esempi che riterrei necessari), e concludo così: non è forse una situazione di forbice anche questa? Internet come specchio (ma ho appena detto che per me ne potrebbe essere in realtà la causa) del contesto sociale fotografato dalla ormai famosa metafora delle forbici. Un manipolo di geni (i nerd) grazie a internet può arricchirsi e diventare a sua volta come minimo milionario e dunque super ricco (e questa è a tutti gli effetti secondo me “la grande opportunità” della rete di cui gli ottimisti parlano), mentre tutto il resto sguazza nel suo mare magnum e si accontenta (i giovani vagheggiando prima o poi di agguantare la stessa ricchezza degli influencer) di farsi fottere dai social, rincoglionendo ogni giorno lì dentro esattamente nella misura che piace a “loro”, regalandogli miliardi di click per la nostra sempre più precisa profilazione, il loro esponenziale arricchimento e il nostro progressivo raggiro e impoverimento (questo è il “loro” sogno, che si perpetua ricorrente ogni giorno, sempre di più: farci stare lì dentro, perché è lì che ci vogliono, perché è nei social e sulle piattaforme tipo YouTube che noi diamo di noi stessi le informazioni più importanti: cosa pensiamo, che amici abbiamo, quali gusti ci forgiano, eccetera).

Sapete qual è la cosa bella? È che ancora non sono arrivato alla conclusione che mi ero prefisso quando oggi ho deciso di parlare di tutto ciò partendo dalle parole di Visco. Ci stavo arrivando, ma ho impiegato già un sacco di spazio. E dunque, lo riscrivo, mi fermo qua, come se questa fosse un premessa, con l’intento di proseguire in una prossima “puntata”. Spero di non esser risultato banale per i più, perché in fondo fin qua ho parlato di cose che credo i più conoscano.

Leggi qui il primo e il secondo scritto della rubrica Elzevirus.

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