‘The Dropout’ è una splendida lezione su come far fesso il prossimo | Rolling Stone Italia
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‘The Dropout’ è una splendida lezione su come far fesso il prossimo

Amanda Seyfried è Elizabeth Holmes nella miniserie Disney+ che racconta una delle parabole (e delle frodi) più assurde della Silicon Valley. E che riconferma anche la nostra stupidità

‘The Dropout’ è una splendida lezione su come far fesso il prossimo

Foto: Hulu/Disney+

Prima che qualcuno s’incavoli com’era successo nei mesi scorsi (vedi alla voce Inventing Anna), questo articolo contiene spoiler esattamente come li contiene la pagina di Wikipedia di Elizabeth Holmes, la fondatrice ed ex amministratrice delegata di Theranos condannata lo scorso gennaio per frode e associazione a delinquere. Holmes, la cui sentenza definitiva è attesa per il prossimo settembre, rischia fino a vent’anni di carcere oltre al pagamento di milioni di dollari in multe: non male, insomma, per colei che nel 2015 Forbes aveva nominato «the world’s youngest self-made female billionaire», facendosi fregare dalla biondina che affermava d’aver sviluppato una tecnologia che avrebbe rivoluzionato gli esami del sangue e una parte enorme del sistema sanitario statunitense (spoiler, ma nemmeno: non era vero niente).

The Dropout, miniserie di Hulu che debutta in Italia il 20 aprile su Disney+, creata da Elizabeth Meriwether e ispirata all’omonimo podcast di ABC News, parla sì delle vicende di Theranos – che nel 2014 era stata valutata la bellezza di nove miliardi di dollari – ma soprattutto di Elizabeth Holmes, interpretata da una strepitosa Amanda Seyfried. L’ennesima truffatrice, secondo il filone narrativo che ormai è diventato un vero e proprio trend, già soggetto di libri (Bad Blood: Secrets and Lies in a Silicon Valley Startup di John Carreyrou) e documentari (The Inventor: Out for Blood in Silicon Valley, firmato HBO), protagonista di una vicenda a dir poco pazzesca. Meriwether però, a differenza dei vari Inventing Anna, WeCrashed, Super Pumped: The Battle for Uber e compagnia cantante, capisce una cosa fondamentale: il pubblico non guarda queste serie per sciropparsi un riassunto romanzato di ciò che è successo. La gente le guarda per capire chi si nasconde dietro ad alcune delle fregature più colossali del secolo.

Elizabeth Holmes simboleggia, come giustamente ha sottolineato il New York Times, «le insidie della cultura del caos, del clamore e dell’avidità della Silicon Valley»: classe 1984, intelligente ma troppo desiderosa di dimostrarlo, poco propensa a riconoscere il valore e l’importanza di quelle che comunemente vengono definite soft skill, schietta ma affascinante, iperconcentrata ma caotica, nel 2002 entra a Stanford per studiare ingegneria chimica con un obiettivo piuttosto ambizioso. «Voglio diventare miliardaria. Il primo passo è Stanford, poi mi laureerò, inventerò un prodotto rivoluzionario e avvierò un’azienda»: alla faccia. Mossa da un ego mostruoso, dall’ammirazione a limiti del patologico per Steve Jobs e da un’intuizione per nulla stupida (la paura degli aghi, e il conseguente terrore nei confronti dei prelievi di sangue), come il suo guru si ritira dall’università e nel 2003 fonda Theranos, una crasi di therapy e diagnosis.

L’idea è di «raccogliere grandi quantità di dati da poche gocce di sangue, tramite la puntura di un dito»: uno scopo pure nobile, peccato che nonostante i professionisti, i macchinari, i soldi, gli investitori eccetera, la tecnologia non ne voglia sapere di funzionare. O, meglio, funziona solo alcune volte, quel tanto che basta per dare fiducia alle persone coinvolte ma, ahinoi, non nel giorno in cui viene mostrata agli investitori. Holmes allora falsifica i risultati che con estrema nonchalance gli vomita addosso facendoli fessi, nonché sancendo il punto di non ritorno e scivolando in un circolo vizioso di manipolazioni e bugie.

Ed è proprio qui che The Dropout, a differenza delle già citate serie sugli scammer, eccelle: fornendo un ritratto precisissimo ed esilarante di una giovane ragazza bianca crudele, insensibile, motivata, insicura, disperata, totalmente egocentrica e narcisista, che con il suo iPod a palla canta le canzoni delle pubblicità di Apple e tira pugni nell’aria, frustrata e trionfante. Da adolescente ansiosa e socialmente inetta, Seyfried trasforma Holmes in una macchina da guerra che impara a farsi strada nel mondo tecnologico imitando coloro che prima l’avevano snobbata: grosso Rolex al polso, tailleur e dolcevita rigorosamente neri, tono di voce appositamente abbassato per risultare più autoritaria e perentoria.

Amanda Seyfried con Naveen Andrews in una scena di ‘The Dropout’. Foto: Hulu/Disney+

Meriwether, dal canto suo, non cede alla tentazione shondista (leggi: riabilitare l’immagine di Anna Delvey trasformandola in una moderna Robin Hood), anzi: Holmes non è tanto una donna che si fa strada in un ambiente dominato dagli uomini, quanto piuttosto una disadattata la cui spinta al successo professionale – l’unico obiettivo che il suo cervello sembra in grado di perseguire – non conosce ostacoli. Anziché incarnare un archetipo di boss femminile vuoto e superficiale, impara a usare quello stesso archetipo a suo vantaggio. E, cosa forse più interessante, pure quando il castello di carte sta per essere spazzato via, grazie a una lunga inchiesta portata avanti dal giornalista del Wall Street Journal John Carreyrou, The Dropout è molto attenta nel chiarire che la menzogna è ancora presumibilmente al servizio di un sogno ammirevole e sincero. Dalla speranza donchisciottesca si passa quindi alla negazione dell’incubo, senza però incappare né nella parodia di una donna sciocca e stravagante con i suoi esami del sangue falsificati e i suoi dolcevita neri, né in una desolante marcia verso la distruzione.

Lungo gli otto episodi (eccolo qui, il difetto: ne sarebbero bastati cinque) si mette in scena una danza ben calibrata tra il riconoscimento della gravità delle azioni di Theranos e l’ammissione della ridicolaggine di Holmes, alla fine diventata indifendibile da chiunque. Un cast azzeccatissimo – al fianco di Amanda Seyfried, già in corsa per l’Emmy, Naveen Andrews, Laurie Metcalf, William H. Macy, Stephen Fry, LisaGay Hamilton, Alan Ruck – e l’eternamente vincente morale dell’individualismo americano: sempre la stessa storia? Ebbene, no. La domanda cruciale riceve infatti una risposta abbastanza convincente, sebbene sotto forma di domanda a sua volta, nell’ultimo episodio: come ha fatto Elizabeth Holmes a persuadere tanta gente ricca, scaltra, potente e affermata a credere alle sue bugie per così tanto tempo? «Non è sorprendente fino a che punto si spingono le persone perbene quando sono sicure di avere ragione?», osserva George Shultz (Sam Waterson), l’ex Segretario di Stato di Ronald Reagan che insieme a Henry Kissinger, Bill Clinton, Rupert Murdoch, aveva investito parecchio denaro in Theranos – e nella sua fondatrice.

Che siano perbene o permale, il succo non cambia: per fare fesso il prossimo basta solo crederci fino in fondo. Perché il prossimo, poi, detesta porsi il più elementare e umano dei dubbi: «Oh cazzo, e se mi stessi sbagliando?».

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