Perché non ci meritiamo Luca Guadagnino | Rolling Stone Italia
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Perché non ci meritiamo Luca Guadagnino

'We Are Who We Are', la prima (bellissima) serie firmata dal regista, lo conferma: Guadagnino è libertà assoluta, in qualsiasi declinazione. E forse non siamo pronti

Perché non ci meritiamo Luca Guadagnino

Jordan Kristine Seamón e Jack Dylan Grazer in 'We Are Who We Are' di Luca Guadagnino

Foto: Yannis Drakoulidis/Sky

L’ho sempre pensato, e con We Are Who We Are è arrivata una nuova, triste conferma: no, noi Luca Guadagnino non ce lo meritiamo. Non siamo ancora pronti, forse non lo saremo nemmeno mai. Con quel “noi” intendo il nostro Paese, che non l’ha mai capito né si è mai sforzato di farlo, domandandosi se ne valesse la pena. Troppo cosmopolita (è cresciuto in Etiopia, la madre è algerina), troppo difficile, troppo colto, per questo forse troppo libero. E pure quasi messo da parte con superficialità a causa di un progetto, Melissa P. (il film tratto dal caso letterario 100 colpi di spazzola prima di andare a dormire di Melissa Panarello, nda), accolto con scetticismo fin da subito, cambiato in corsa con l’ingresso americano nella produzione e, come ha dichiarato lo stesso Guadagnino nel 2018, la conseguente perdita del controllo creativo da parte sua. Il film nel 2005 incassa sette milioni in Italia, anche se per la carriera di Luca non cambia nulla, purtroppo.

Avanti veloce (arriviamo alla serie, giuro): nel 2009 esce Io sono l’amore. Ecco, questo merita un discorso a parte: diversi attori (americanissimi, of course) che mi è capitato di intervistare nel tempo (l’ultima è stata Jessica Chastain) ne parlano come di uno dei loro film del cuore. In America al botteghino va bene, in Italia incassa più o meno centomila euro, e lo stesso farà A Bigger Splash, remake della Piscina di Jacques Deray, con cast all star: dalla “solita” Tilda Swinton a Ralph Fiennes a Dakota Johnson. E con questo arriva l’altra etichetta: Guadagnino è “quello dei rifacimenti”. Ma, se avete visto il suo Suspiria, è inutile spiegare che è decisamente tutto molto più complesso di così. È un suo confronto ideale con quello che lui considera un maestro: c’è Dario Argento, certo, ma la visione di Guadagnino dialoga con lui e poi se ne distacca, incrociando il cinema di Fassbinder e le tematiche politiche per girare un film «sul terribile nei rapporti interpersonali, sul terribile del femminile, sul terribile nella Storia».

A quel punto – era fine 2018 – avevamo tutti appena finito di gridare al “trionfo italiano” per le tre nomination agli Oscar di Chiamami col tuo nome e ancora più forte per la vittoria di James Ivory nella categoria miglior sceneggiatura non originale. Perché quando si tratta di salire sul carro del vincitore, siamo i migliori. Salvo poi consegnargli vergognosamente solo un David di Donatello, e soltanto nella stessa categoria. E continuare a dire che Chiamami col tuo nome è uno dei film più belli degli ultimi anni.

Avanti veloce, di nuovo: arriviamo finalmente alla sua prima serie, We Are Who We Are, anticipatissima, attesissima. Ma venerdì, al debutto su Sky Atlantic, ha raccolto 168mila spettatori medi (compreso l’on demand, gli abbonati che hanno potuto vederlo prima ecc. ecc). Sì, avete letto bene, è davvero poco. Servono altre argomentazioni per spiegare il motivo per cui non ci meritiamo Guadagnino? Forse no, ma ne ho almeno un altro paio.

Mentre noi ci riempiamo la bocca e – soprattutto – intasiamo i social di arcobaleni e di dichiarazioni sull’importanza di rappresentazione, diversity, accettazione, ma siamo lontani anni luce dal tradurre sullo schermo un messaggio di libertà e fluidità così totale, Guadagnino con questa serie abbatte ogni tipo di confine. E lo fa ambientando questo inno all’anticonformismo nel luogo più conformista che si possa immaginare: il contesto militare tutto regole e imposizioni, nello specifico una base dell’esercito americano in Italia nell’annus horribilis 2016, quando The Donald diventa Mister President e gli Stati Uniti si preparano al peggior mandato della loro storia. Ma per Fraser (Jack Dylan Grazer), aspirante stilista newyorkese appena arrivato al campo con le sue due mamme – Sarah (Chloë Sevigny), nuovo comandante in capo, e la moglie Maggie (Alice Braga) –, e la popolare Caitlin (Jordan Kristine Seamón), figlia di un ufficiale afroamericano (Kid Cudi, qui la nostra cover story)) sostenitore di Trump, le imposizioni non hanno mai funzionato. Lui pensa di essere gay ma non ne è certo, lei quando può si veste da maschio e si fa chiamare Harper. Entrambi parlano quasi in versi, si incontrano, si riconoscono, le linee sono sfocate come quella tra Italia e USA in un microcosmo di soldati che hanno ricreato l’America fuori dall’America. Intorno a loro c’è un altro gruppo di adolescenti alla ricerca furiosa di qualcosa: come la disinibita Britney (Francesca Scorsese, figlia di Martin) o Danny, il fratellastro di Caitlin indeciso se abbracciare la fede islamica che era di suo padre. E poi Sam, ex ragazzo di Caitlin, Craig, uno dei soldati più giovani della base, Valentina, la sua fidanzata italiana, ed Enrico, che ha un debole per Britney.

Luca Guadagnino sul set con il il cast di ‘We Are Who We Are’. Foto: Yannis Drakoulidis/Sky

Tutti sperimentano e cercano di trovarsi disperatamente anche attraverso il sesso: c’è una magnifica sequenza in villa (anzi, due, dellamore e dellamorte – capirete solo guardando), forse il Melissa P. che Guadagnino avrebbe voluto girare davvero. Restituendoci anche l’insopportabilità, la respingenza dell’adolescenza in questi ragazzi, con i quali a tratti si fatica pure ad empatizzare, a differenza di quanto capitava con l’Elio di Timothée Chalamet (che appare anche in un cameo del tipo “se sbatti le palpebre, te lo perdi”). La serie si concentra sui personaggi celebrando la libertà assoluta come Maurice Pialat, che Guadagnino omaggia persino nel nome della base militare. Ma, e qui stanno la sua delicatezza e sensibilità, We Are Who We Are non diventa mai un’ode forzata al gender fluid, ma semplicemente la ricerca di e forse la rinuncia a un’identità univoca, la celebrazione di ognuno per quello che è, qui e ora, e per quello che vuole essere. “It is what it is”, canta in Time Will Tell Blood Orange, che è anche l’autore delle musiche originali, e in un certo senso il fil rouge della storia. We Are Who We Are, risponde Luca Guadagnino: «Se la serie è politica è perché in qualche modo apre lo sguardo sull’altro e dà voce, in modo meno edulcorato del mainstream, a una molteplicità di caratteri che sono piuttosto invisibili o poco rappresentati sugli schermi».

Jordan Kristine Seamón e Luca Guadagnino. Foto: Yannis Drakoulidis/Sky

E il regista applica la fluidità anche alla questione del mezzo, svuotando di senso quella distinzione ancora così assurdamente rigida che facciamo tra cinema e tv, e tra i generi: è un teen drama? Forse, ma ci sono pure gli adulti, che vorrebbero poter avere la stessa libertà dell’estate della loro vita, aka l’adolescenza. «Se non ci fosse Chioggia non sembrerebbe una serie italiana», si scherzava con un collega. Guadagnino respira cinema. E non può fare a meno di spezzare – anzi, di più, ignorare – anche le convezioni del racconto cosiddetto televisivo, non prendendo mai nemmeno in considerazione gli schemi del linguaggio seriale, i cliffhanger, gli stratagemmi per lanciare la puntata successiva. Ad ogni episodio cambia le regole del gioco, modifica la prospettiva, utilizzando sempre il montaggio (di Marco Costa) in modo rivoluzionario per ribaltare tutto con una giustapposizione finale, per cambiare luogo, per introdurre qualcuno. Ci sono costanti: la dilatazione del tempo (come in Kechiche), lo sguardo quasi voyeuristico, sciolto, audace, la cura maniacale dei dettagli, l’accostamento spiazzante e inaspettato in un modo mai visto delle musiche alle immagini (da Sakamoto a Moroder, da Kanye ad Anna Oxa). «Non è una serie, è un film», ho sentito dire. Certo, «è un film in otto capitoli», l’ha detto pure Guadagnino. E quindi? We Are Who We Are è Guadagnino. È libertà assoluta, in qualsiasi declinazione. Bisogna solo prendersi il tempo di assaporarla. Ma forse noi davvero non siamo pronti.

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