‘La casa di carta 5 – Vol. 1’: adesso gli ostaggi siamo noi | Rolling Stone Italia
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‘La casa di carta 5 – Vol. 1’: adesso gli ostaggi siamo noi

La serie Netflix torna con una serie di episodi ipercinetici, liberi da sottotrame e stratagemmi. Tra sosia di Diego Fusaro, randellate e dirty talk, non ci resta che aspettare il colpo di scena finale

‘La casa di carta 5 – Vol. 1’: adesso gli ostaggi siamo noi

Foto: Netflix

L’ultimo episodio della scorsa stagione della Casa di Carta cominciava con una scena madre di cui erano protagonisti il defunto Berlino e un giovane Palermo. Nel flashback il fratello maggiore del Professore dichiarava al suo amante di essere attratto dalle donne per l’1% del desiderio totale a sua disposizione (“circa un mitocondrio”, precisava) e per il restante 99 dagli uomini. Ma questo bastò a fermare il loro amore. Nella quinta parte della serie, che è disponibile da oggi su Netflix per i primi cinque episodi (cui ne seguiranno altrettanti il 3 dicembre, per l’atto finale), l’1% di sceneggiatura è costituito da trama e il restante 99 da fuoco incrociato di mitra e improperi. Ma questo non basterà a fermare il successo del crime spagnolo.

La buona notizia è che i primi episodi della nuova stagione, disponibili oggi su Netflix (ne seguiranno altrettanti a dicembre, per la finalissima), sembrano dimostrare che questa serie è una macchina ormai lanciata a troppa velocità verso il finale perché possa rallentare. La brutta è che il genere cinetelevisivo della rapina è per definizione rigoroso come una partita a scacchi. Qui è come se il match fosse cominciato da seduti e fosse finito a tirarsi i pedoni addosso, rincorrendosi per il salotto.

La vicenda riprende da dove l’avevamo lasciata. Le forze schierate sono sempre quelle dei ladri dalle tute rosse, chiusi coi loro ostaggi all’interno del Banco de España, in procinto di trafugarne le riserve auree; e quelle delle guardie in tuta nera, accampate nel loro tendone logistico e il cui capo, il Colonnello Tamayo, alterna ancora con ottimo senso del ritmo le sue due invocazioni preferite: Hijo de puta e A tutte le unità.

La novità è che il Professore non è più libero di comunicare i suoi ordini ai suoi complici dentro la banca. Per dirla tutta non è neanche più libero di muoversi. È momentaneamente incatenato per mano di Alicia Sierra, la torturatrice di Rio ora latitante, e che i bene informati sostengono sia sovrapponibile a Tatiana. Chi è Tatiana? L’ultima partner etero di Berlino, che potrebbe conoscere dei piani del Professore molto più di quanto già non traspaia dal fatto che ne ha svelato il nascondiglio.

Úrsula Corberó, Belén Cuesta e Jaime Lorente in ‘La casa di carta 5 – Vol. 1’. Foto: Netflix

Per la quinta e ultima parte della Casa di carta i furbetti del copioncino hanno avuto un’idea geniale. Non sembrava possibile dare ancora meno a un pubblico che, evidentemente, chiedeva già così poco. Sappiamo bene come fin da prima del primo metacasting per la prima rapina il Professore abbia previsto quasi tutti i possibili scenari, nel bene o nel male, puntata per puntata, come fa appunto uno sceneggiatore. Ogni volta che sorgeva un problema, era sempre tutto previsto (certo, in una trama in cui può essere tutto previsto, niente sembra davvero previsto e molto sembra già visto). Ora questo sceneggiatore sembra essersi preso una lunga pausa pranzo.

Quello che per la carriera del Professore sembra chiaramente un tasto dolente (a meno che non abbia previsto anche questa sessione di improvvisazione teatrale) è invece un sospirato liberi tutti balistico, linguistico e soprattutto semantico. Un pronti, partenza, via che sia i nostri personaggi che i loro sceneggiatori stavano aspettando come l’imprimatur per un rush finale in cui gli ultimi barlumi di nessi causa-effetto – insieme alle ultime verosimiglianze psicologiche – possono finalmente incontrare le madri di tutti gli interlocutori di Tamayo, in un posto migliore.

Tiene botta però la linea comica. A partire dal povero vice ispettore Ángel Rubio, che sembra essere ricambiato in stima professionale dai suoi nuovi superiori quanto lo era, nei sentimenti, da Raquel: meno di zero. Sono godibili le importanti metafore calcistiche ordite dal solito Arturito. Quando, prima di un attacco, vuole innervosire Denver mettendo in campo il suo revanscismo nei confronti della sua ex amante Monica, dopo aver passato in rassegna le sue risorse, dichiara: “Non abbiamo campioni come Messi o Ronaldo, ma giochiamo col tiki-taka”. Segno evidente che la linea comica è sì presente, ma è quella a cazzo di Arturo che vince sulla distanza.

I tre nuovi personaggi – Rafael, il figlio di Berlino; René, il grande amore defunto di Tokyo e Sagasta, un maniaco omicida delle forze speciali – sono notevoli almeno perché si stagliano sugli altri che, fatte poche eccezioni, sono ormai intercambiabili ai fini dell’attribuzione di battute, posture o armamenti. E questo tanto tra le fila dei buoni che, in fondo, sono peggio dei cattivi, quanto tra quelle dei cattivi che, in superficie, dovrebbero essere buoni. Palermo, ad esempio, non ha molte occasioni per dimostrare di essere speciale al di là del fatto che il suo nickname ha un riferimento geografico concreto (è realmente domiciliato nel capoluogo siciliano). Gli altri, quando non si accusano a vicenda di non nutrire abbastanza sentimento di vendetta per la morte di Nairobi, picchiano a turno Gandía, capo della sicurezza della banca ed esecutore materiale dell’omicidio della loro compianta complice. È sempre più difficile considerare plausibile il supporto della folla ai rapinatori; tuttavia dalla piazza continua a dedicare entusiasmo e striscioni a dei ladri neanche tanto simpatici, relativamente fotogenici e piuttosto violenti. Ma poi riguardi le percentuali della Lega alle ultime politiche e ti dai una risposta.

Foto: MANOLO PAVÓN/NETFLIX © 2020

 

Solo Tokyo, tra i personaggi “storici”, merita un discorso a parte. È straordinaria quando pensa di ridare una chance a Rio nel modo più umiliante che esista, peggio ancora della friendzone: la multitasking zone. Posso sedurti mentre passo alla fiamma ossidrica una cassaforte e faccio anche una terza cosa. Va da sé che la speranza è che quella terza cosa sia prenderlo apertamente per i fondelli. Altra sua pensata da segnalare: la Professoressa, il perfido nickname per Raquel che Tokyo decide di affiancare a quello di Lisbona. Rafael, invece, è il classico figliol prodigo di criminale: onesto, ingegnere ed educato. Ha delle Timberland e non ha paura di indossarle (tra l’altro somiglia pericolosamente a Diego Fusaro).

Con tutto il rispetto per le tre nuove leve, la vera rivelazione della quinta stagione è però una vecchia conoscenza molto sottovalutata. Eppure la distinta, elegante figura del Governatore del Banco de España sembra quella di un gigante, considerata la media. Andrebbe fatto il suo nome, perché non sembra ricordarlo nessuno: Mario Urbaneja. Questo eroe fa solo un errore, ma madornale: si dà il compito gravoso e ovviamente fallimentare di moralizzare il collega ostaggio Arturito. Preoccupato ma anche seccato dall’agitazione dell’ex direttore della Zecca di Stato, prova a infondergli valor civile: l’altro fraintende, impadronendosi dell’intero arsenale dei rapinatori e autoproclamandosi Rambo iberico.

Cionondimeno Mario, cui auguriamo ogni bene nel prosieguo della stagione, resta il nostro eroe non solo perché è l’unico personaggio realmente positivo di una serie che da tempo ha rinunciato a distinguere tra buoni e cattivi (derubricando le due categorie in: scemi e più scemi); ma soprattutto perché è l’unico personaggio il cui punto di vista può coincidere col nostro. Mentre attende pazientemente e coraggiosamente la conclusione del plot, tutto gli vola sulla testa argentea, dai capelli borbonicamente tirati all’indietro: proiettili, fiamme libere, insulti, la noia cosmica, Arturito; eppure non sembra mai sopraffatto dalla strana piega che ha preso la sua vita da uomo di Stato.

Così nella nuova stagione non sembra prevalere più l’assimilazione (tipica della quarta stagione) tra rapinatori e sceneggiatori, alla perenne ricerca di un nuovo stratagemma che possa rimandare il finale della serie, timorosi com’erano che esso potesse risultare loro, rispettivamente, letale o sconclusionato. La metafora che domina la quinta parte della Casa di carta è quella di noi spettatori come ostaggi. Tutt’al più, nei momenti di maggiore agguerrimento critico, come figuranti tra le forze di polizia. Spezzato l’incantesimo da Mille e una notte di cornici narrative autoespandenti e sottotrame sottovuoto, che somigliavano tanto a un porno con solo dialogo, nei nuovi episodi ipercinetici e poco pensati ci sarebbe allora solo sesso, se il sesso però fosse costituito esclusivamente da dirty talk, bondage e randellate.

Non sappiamo ancora che succederà a dicembre. I nostri antieroi preferiranno deludere il pubblico delle loro piazze fittizie per non deludere quello, reale, da casa? Accontenteranno entrambi con una mossa diabolica che li riabiliterà definitivamente, insieme ai loro autori? È difficile immaginarlo.

Foto: TAMARA ARRANZ/NETFLIX © 2020

 

La casa di carta, fin dal titolo bene scelto per le prime due ottime stagioni, voleva rappresentare una doppia illusione: da una parte quella degli Stati di poter governare l’ingovernabile; dall’altra quella dei rivoluzionari di poter cambiare la realtà, altrettanto classica. L’immagine era validissima: la banconota come primo mattone di un edificio ingannevole, simbolo della primordiale finanziarizzazione di qualcosa di tangibile ma al tempo stesso fallace come la ricchezza. Dalla terza stagione in poi l’oggetto del contendere è diventato l’oro, perché possa essere fuso e trasformato in poltiglia. Sic.

La speranza, forse malriposta, per le cinque puntate terminali è che, avendo noi subito così tanti cambi di direzione camuffati da predestinazione, e comparse camuffate da personaggi, l’effetto più speciale della produzione possa essere la reintroduzione della verosimiglianza di un tratto psicologico (o anche solo della traiettoria di un proiettile). E che il colpo di scena più travolgente possa essere trovare in tutto questo un senso, anche se vaneggiante, illusorio o perfino alla Vasco.

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