‘GLOW’, empowerment sul ring ai tempi della lacca | Rolling Stone Italia
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‘GLOW’, empowerment sul ring ai tempi della lacca

Tornano le Gorgeous Ladies of Wrestling con la terza stagione della serie femminile e femminista sì, ma quasi mai nel modo che ti aspetti

‘GLOW’, empowerment sul ring ai tempi della lacca

Betty Gilpin e Alison Brie in 'GLOW 3'

La sigla fatta di luci al neon stampa il logo fucsia sulle note di The Warrior di Scandal feat. Patty Smyth. Il pitch è “donne che fanno wrestling” e il mantra – ripetuto dal cast in ogni incontro stampa – è: «Questa è una serie empowering». È GLOW, parla delle Gorgeous Ladies of Wrestling: come potrebbe essere altrimenti?

Essere empowering è un obbligo ricorrente oggi, soprattutto se si corteggia un pubblico femminile: da Wonder Woman a Captain Marvel, dalle Ghostbusters al restyling di Sabrina, passando per la compilation d’inni d’autoaffermazione che comincia con Let It Go e finisce (per ora) con la sua scopiazzatura nel nuovo Aladdin. Intendiamoci: l’empowerment è importante. Per la motivazione personale, per una riscossa collettiva e per una sovversione più o meno sottile di squilibri di potere consolidati: tutti, prima o poi, ne abbiamo bisogno. Ma l’empowerment – la presa di coscienza di sé e del proprio valore, soprattutto in opposizione alle imposizioni del “mondo” – può essere un punto di partenza (una rivelazione iniziale) o d’arrivo (il culmine di un percorso), ma è fondamentale non saltare tutto quel che sta nel mezzo, limitandosi allo slogan e rischiando di ritrovarsi con un messaggio un po’ superficiale o, peggio, inutile.

Per fortuna GLOW, di cui dal 9 agosto è disponibile la terza stagione su Netflix, racconta proprio di “tutto quel che sta nel mezzo”. Creata da Liz Flahive e Carly Mensch (Nurse Jackie), è prodotta dalla Jenji Kohan di Orange Is the New Black. È intenzionalmente più leggera, ma dal carcere di Litchfield estrae il maggior punto di forza, e cioè la coralità di un gruppo eterogeneo di personaggi e storie. È una serie femminile, femminista ed empowering, sì, ma quasi mai nel modo che t’aspetti. Anzi: sfrutta la facciata colorata e ottimista per accompagnarci in un vortice di contraddizioni.

Anni ’80, nostalgia zero

GLOW si diverte un mondo con l’aspetto superficiale delle cose. È ambientata negli anni ’80 perché il vero GLOW – andato in onda tra il 1986 e il 1989, diventato un piccolo culto, dal 2001 un revival creato dalla wrestler Ursula Hayden e nel 2012 oggetto del documentario che ha ispirato la serie Netflix – nasce in quegli anni. È ambientata negli anni ’80 anche perché, si sa, è la moda del momento. Però, a differenza di Stranger Things & co., non sta troppo a crogiolarsi nella nostalgia: trucco e parrucco servono a dipingere uno sfondo variopinto e a farci sogghignare per gli outfit improbabili, ma la serie si muove in motel scalcinati, parcheggi polverosi, set cadenti, e quest’anno in una Las Vegas di quasi periferia poco glamour. Non è un caso che la stagione 3 si apra con la tragedia del Challenger del 1986, lo Space Shuttle che esplose durante il decollo, di fronte all’America intera, mentre a bordo c’era una civile, la maestra Christa McAuliffe selezionata attraverso il programma Teachers in Space.

GLOW è ambientata negli anni ’80 anche perché gli Eighties sono il decennio dell’apparenza, dell’edonismo sfrenato, della superficialità esibita, del disimpegno rivendicato. Delle pettinature iper laccate che si ergono per chilometri sul capo delle protagoniste, dei body sgambatissimi coordinati con gli scaldamuscoli, dell’aerobica e del body building. L’idea stessa di “donne wrestler”, che oggi sembra empowering quasi per automatismo, nella serie è l’opposto, è il massimo dell’exploitation: è il sogno di un ragazzo ricco che vuole guardare belle donne semi nude prendersi a mazzate su un ring. Ma il progetto è talmente fuori dagli schemi che alle audizioni si presenta il tipo femminile che sullo schermo, negli anni ’80, non si vede mai, se non come macchietta: fisici non conformi, etnie non bianche, qualcuna è la definizione di weird (come Sheila, la donna-lupo), qualcun’altra è condannata all’insoddisfazione perenne (come Ruth, sempre scartata ai casting perché «nessuno vuole vedere davvero una donna autentica»).

Stereotipo dunque sono

Come chi si prende gli insulti e li trasforma con orgoglio in armatura, le ragazze adottano, per i propri alter ego, i peggiori stereotipi razzisti: la cambogiana Jenny diventa Biscotto della Fortuna, l’indiana Arthie si trasforma in Beirut la bombarola pazza, l’afroamericana Tammé è la villain Welfare Queen, e lo scontro principale si combatte tra la caricatura sovietica Zoya the Destroya e l’americanissima biondissima bianchissima Liberty Bell. Nella prima stagione indossare con sfacciataggine questi scorrettissimi alias è un gesto empowering, ma nelle annate successive (soprattutto in questa terza) le ragazze devono fare i conti con le contraddizioni di questa scelta. E così le protagoniste di GLOW si interrogano tutto il tempo sul proprio ruolo, fuori e dentro il ring, provando a capire chi sono davvero. Che poi è una parte cruciale delle riflessioni femministe: quali sono i “modelli” di donna, e chi li ha decisi? Cos’è un comportamento “da femmina” e cosa uno “da maschio”? E chi siamo, davvero, una volta tolto il costume, il trucco, gli atteggiamenti, le abitudini, le convenzioni sociali? Perdindirindina, non avevamo detto che GLOW è una serie leggera e divertente?

Corpo a corpo

Kia Stevens

Se siete appassionati di wrestling, le coreografie di GLOW non vi spettineranno. Dipende dal fatto che sono le stesse attrici a eseguirle, quasi senza stunt, e nessuna di loro è una vera wrestler, tranne Kia Stevens aka Awesome Kong, cioè Tammé “Welfare Queen” Dawson. Le altre hanno imparato da zero i rudimenti della professione, allenandosi duramente per mesi (con Chavo Guerrero Jr.), proprio come i loro personaggi nella prima stagione. Se amate il wrestling è questa la parte della serie che vi scioglierà, almeno un po’, il cuore: perché per una volta quest’arte performativa che ha occupato con gioia tanti nostri pomeriggi su Italia 1, è trattata con passione, rispetto e suprema ammirazione. Le attrici hanno dichiarato che allenarsi non per essere esteticamente attraenti ma per risultare credibili come lottatrici ha fatto guadagnare loro una conoscenza e un controllo del corpo mai provati prima, è stato liberatorio e ha fatto sì che tra loro si sviluppasse totale fiducia (ottima per la sorellanza, indispensabile per non finire in ospedale). E, okay, le loro esibizioni non saranno a livello delle prodezze di una finale di WWE, ma hanno un’autenticità che non si inscena: quando, dopo immancabili training montage, le ragazze convergono sul ring per dare il meglio di sé in un grandioso sforzo comune, GLOW riluce più che mai. Eccolo, l’empowerment.

There’s no business like showbusiness

GLOW è uno show su uno show ispirato a un vero show: ovviamente è una serie più meta che mai. Uno dei protagonisti è Sam Sylvia, un regista fallito di B movie: cocainomane, burbero, cinico, ha le battute migliori e un cuore d’oro. Lo interpreta Marc Maron, stand up comedian e podcaster di successo. Nella terza stagione scrive una sceneggiatura e la fa leggere a una delle ragazze: «Perché è l’eroe ad avere tutte le battute migliori?» gli chiede lei, di rimando. A partire dalla scena d’apertura, in cui Ruth a un’audizione recita “per errore” la parte del protagonista maschile (le sarebbe toccata quella della segretaria: «Signore, c’è sua moglie sulla 2»), GLOW utilizza l’aspetto meta per rilevare il sessismo dell’industria che negli anni 80 riservava alle donne una sproporzionata quantità di ruoli decorativi (oggi, invece). Con Debbie che diventa produttrice scopriamo quant’è difficile essere prese sul serio in un ambiente dominato da maschi bianchi di mezza età. Nella seconda stagione Ruth subisce un’aggressione sessuale da un finanziatore: scritta dopo l’esplosione dell’affaire Weinstein, la puntata è ispirata in parte alle esperienze personali delle sceneggiatrici, a riprova di un abuso considerato la norma a Hollywood (e non solo). Nella terza stagione, infine, c’è un’aggiunta fenomenale al cast: Geena Davis, star anni ’80 e ’90, Thelma e ragazza vincente, ma anche attivista per la rappresentazione e i diritti delle donne, con il suo Geena Davis Institute for Gender in Media.

Ruth & Debbie: una storia d’amore

glow netflix

E alla fine, come sempre, è una questione di personaggi. Dopo che Ruth fugge dall’assalitore, è cruciale il suo confronto con Debbie: che le risponde che avrebbe dovuto restare per salvare lo show, riverberando nella voce, senza bisogno di esplicitarle, tutte le volte in cui è toccato a lei trovarsi in una situazione simile e magari cedere alle molestie di un potente. Quella tra Debbie (Betty Gilpin) e Ruth (Alison Brie, che nella terza stagione è anche regista di un episodio) è la vera love story di GLOW: si comincia con un enorme tradimento (Ruth va a letto col marito di Debbie), e da lì è tutto un ricostruire una relazione spezzata, tra due personaggi fitti di difetti, insicurezze, imperfezioni, opposti ma complementari, capaci di fare (e farsi) cose orribili, generose, esaltanti. Con loro e con le colleghe la serie affronta grandi e piccole questioni femminili: coniugare maternità e carriera, fare un test di gravidanza che assomiglia a un kit per il piccolo chimico, temere di essere lesbica in un’epoca scopertamente omofoba o che dopo una gravidanza il corpo non sia più lo stesso… La premessa “donne wrestler” fa pensare a una serie piena di “strong female character”, ma le protagoniste di GLOW sono forti, deboli, sveglie, stupide, determinate, rassegnate, egoiste, stronze, generose, pigre, creative e un’ampia varietà di altri aggettivi, spesso tutti contemporaneamente. Un po’ tipo le persone, in qualsiasi genere s’identifichino.

E per una serie che, all’apparenza, punta tutto sull’energia e il successo, riempiendo i suoi poster di tante Rosie the riveter glitterate, quel che racconta davvero GLOW è qualcosa di più complesso e stratificato. Cioè il fallimento (fateci caso: tocca tutti i personaggi): che obbliga a fare i conti con se stessi per poi ricominciare da capo, ricostruire, allenarsi ancora e ancora, escogitare nuovi modi di fare e magari di fallire, nuovi obiettivi e vie d’uscita. Per rialzarsi dopo le legnate, siano quelle coreografate, o quelle, molto più dolorose e infide, della vita vera. L’avevamo detto, no, che è una serie empowering?

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