Elizabeth e le sue sorelle: l’importanza di chiamarsi Olsen (e di farsi i cazzi propri) | Rolling Stone Italia
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Elizabeth e le sue sorelle: l’importanza di chiamarsi Olsen (e di farsi i cazzi propri)

La terza arrivata del clan rischiava di essere vampirizzata dalla fama delle gemelle Ashley e Mary-Kate. Invece, è riuscita ad affrancarsi stando in silenzio. E facendo (benissimo) l’attrice: l’ultimo colpaccio Marvel, ‘WandaVision’, ne è l’ennesima prova

Elizabeth e le sue sorelle: l’importanza di chiamarsi Olsen (e di farsi i cazzi propri)

Elizabeth Olsen in ‘WandaVision’

Foto: Disney+

L’unico individuo di sesso femminile che mette d’accordo me e il mio fidanzato – i cui gusti in fatto di donne mi portano spesso a interrogarmi sul mio personale posizionamento nel suo universo estetico – dicevo, l’unico individuo di sesso femminile che ci mette d’accordo è Elizabeth Olsen. La spietata, vendicativa e potentissima Wanda Maximoff, la Scarlet Witch capace di tenere testa a Thanos prima dell’arrivo di quel concentrato d’antipatia che è Captain Marvel (Brie Larson) – perdonatemi, sto parlando in avengerese – non è solo bella, non è solo brava, è anche la quintessenza di come dovrebbe essere una vera star. Ossia una che sa recitare in film e serie drammatiche (La fuga di Martha, I segreti di Wind River, Sorry For Your Loss); in giocattoloni (Godzilla, tre episodi della saga degli Avengers, Captain America: Civil War); in serie tv che sulla carta dovevano essere dei giocattoloni, e invece si sono rivelate esperimenti parecchio audaci, nonché finora parecchio riusciti (WandaVision, su Disney+).

Elizabeth Olsen è in grado di fare tutto questo con grazia, rigore e una certa leggerezza, sarà per via del sangue norvegese da parte di papà, che sembra imporle un mantra assai condivisibile: «Lavora sodo, non lasciarti fregare dalla fuffa e non prenderti troppo sul serio». Dietro WandaVision ci sono Jac Schaeffer e Matt Shakman; dentro WandaVision, oltre a Olsen, Paul Bettany nei panni di Visione (i due insieme sono semplicemente deliziosi) e una carrellata di volti familiari come Kathryn Hahn, Kat Dennings, Randall Park; davanti a WandaVision, noi che ne vogliamo sempre di più, che una quarantina risicata di minuti a episodio con cliffhanger strategico ci fa salivare più d’una parmigiana.

Mid-Season Trailer | Marvel Studios' WandaVision | Disney+

Ma torniamo a Elizabeth Olsen, che sin dagli esordi (giovanissima, con alcune apparizioni nei film delle sorelle: adesso c’arriviamo) è stata molto attenta alla sua immagine pubblica: non c’ha mai ammorbato con proclami, non è su nessun social, non occupa le pagine dei tabloid con flirt, gossip, accuse, annunci o prese di posizione. Elizabeth Olsen, insomma, recita, lo fa gran bene, e non si limita a quello: si fa anche molto i cazzi suoi, dote che a Hollywood – e nel mondo in generale – sembra essere andata perduta. Il talento di Elizabeth di olsenizzare il cinema (leggi: di imporre la propria presenza senza urlare) è direttamente correlato al talento delle sorelle Ashley e Mary-Kate – le gemelle Olsen – di olsenizzare la moda (leggi: con The Row, il brand di lusso più rilevante all’interno del fashion system americano).

I tempi di Due gemelle e un maggiordomo o Matrimonio a quattro mani, in cui erano circondate dall’allure morbosa e inquietante che si genera attorno a qualsiasi bambino prodigio, sono un ricordo lontano. Le gemelle Olsen oggi rappresentano il sogno più o meno erotico dei seguaci dello stile minimal made in Usa: i sempliciotti direbbero che sembrano vestite come due clochard con capelli che invocano uno shampoo, noi adepti di queste due sacerdotesse del buon gusto riconosciamo la Birkin di coccodrillo buttata su un marciapiede di New York mentre viene fumata la ventesima sigaretta e tracannato l’ennesimo iced coffee; il cappotto oversize Lemaire; gli occhialoni Chanel; gli auricolari col filo, ché gli AirPod sono da parvenu.

Ashley e Mary-Kate, in un pianeta popolato da Victoria Beckham, Alexa Chung, Rihanna, Kanye West e simili, sono le uniche celebrity designer ad avere un marchio che macina tra i cento e i duecento milioni di dollari all’anno nonostante i prezzi non popolari (un trench in pelle? Ve lo portate a casa con circa diecimila dollari) e che dal 2006 – anno della fondazione – fa incetta di CFDA Fashion Awards (ossia gli Oscar della moda). The Row è venerato da chiunque appartenga alla parrocchia che “l’eleganza non è la borsetta dell’influencer o la sneaker del rapper”, da chi è convinto che l’eleganza non debba andare (quasi) mai in saldo e da chi rabbrividisce all’idea di loghi, stampe, scolli e cafonerie. Il lusso delle gemelle Olsen è l’antitesi del lusso di Chiara Ferragni: le prime vengono paparazzate infagottate come due senzatetto e sono l’apice del cool; la seconda trascorre le ore a truccarsi, a stirarsi i capelli, a scattarsi dei selfie, e pare la testimonial della Fornarina.

Per Elizabeth il confronto con le due sorelle maggiori in passato non è stato semplicissimo, sebbene lei stessa abbia riconosciuto l’indiscutibile merito della loro influenza sulle sue scelte professionali. «Mi hanno aiutato a orientarmi nel modo in cui voglio affrontare la mia carriera. Ho sempre avuto bisogno di dimostrare a chiunque quanto valgo, che lavoro davvero duro. Non potevo entrare in una stanza senza che tutti avessero già un’opinione su di me: il problema del nepotismo è proprio la paura di non essersi guadagnati o meritati il riconoscimento. C’era persino una parte di me, quand’ero piccola, che pensava “Se diventerò un’attrice, mi spaccerò per Elizabeth Chase, che è il mio secondo nome”». Non ce n’è stato bisogno, dato che la bravura di Elizabeth – e di Ashley e Mary-Kate – è stata quella di riuscire ad affrancarsi l’una dalle altre, così da non dover brillare di luce riflessa o da doversi conquistare favori grazie al cognome.

L’approccio, però, rimane il medesimo: sgobbare, crederci, farsi i cazzi propri. Tradotto: concedere interviste col contagocce; lasciare che sia il lavoro a parlare per sé (a eccezione del travagliatissimo e chiacchieratissimo divorzio tra Mary-Kate e Olivier Sarkozy: d’altronde, persino i ricchi durante il lockdown sclerano); non perdere tempo a postare foto e dichiarazioni di varia entità su Instagram o a creare stanze su Clubhouse. Sarà la tempra nordica? Chi lo sa, io so soltanto che vorrei che le tre sorelle Olsen olsenizzassero anche il femminismo: meno cancelletti, meno chiacchiere, meno social, meno polemiche di cui nessuno sente il bisogno. Ah, se poi decidessero di fare un 30% di sconto sui pantaloni in cady che mi sogno pure di notte, sarebbe tutto grasso che cola.

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