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Woodstock prima di Woodstock: il regno di Bob Dylan

Prima dell'invasione hippie dell'estate '69, la terra all'ombra dei monti Catskill aveva già iniziato a scrivere la leggenda del rock. Grazie a Dylan e alla sua band, che qui si erano ritirati per vivere da cowboy beat

Woodstock prima di Woodstock: il regno di Bob Dylan

Bob Dylan nel 1964

Foto: Douglas R. Gilbert/Redferns/Getty Images

Molto prima che i “tre giorni di pace e musica” del Festival di Woodstock trasformassero la cittadina sui monti Catskills in una mecca hippie, era un rifugio per pittori, musicisti, attori, anarchici, contrabbandieri, utopisti e un vasto assortimento di eccentrici. Ma nessuno ebbe lo stesso impatto su quel luogo di quei quattro turbolenti canadesi consumati dai chilometri percorsi, che si registrarono al Woodstock Motel all’inizio della primavera del 1967.

Richard Manuel, Garth Hudson, Rick Danko e Robbie Robertson, ovvero gli Hawks, avevano iniziato ad andare in tour quando la maggior parte di loro era ancora adolescente, suonando prima per il cantante rockabilly Ronnie Hawkins, poi per Bob Dylan nel suo tour del 1966. Dylan viveva a Woodstock e aveva da poco acquistato una casa nella comunità di artisti di Byrdcliffe, dove era in convalescenza dopo un incidente in moto. L’incidente lo aveva costretto a cancellare il tour in programma per il 1967, lasciando gli Hawks senza uno scopo nella vita. Quando il manager di Dylan, Albert Grossman, suggerì che il gruppo andasse a Woodstock, l’idea fu apprezzata: il posto offriva affitti bassi, ampi spazi per lavorare alla loro musica e, dopo anni on the road, raccontò Hudson, l’opportunità di “riabituarsi alle zanzariere, alla lavastoviglie e ad andare al cesso”.

La band (il cui batterista, Levon Helm, viveva a Memphis ma avrebbe raggiunto il gruppo quell’autunno) si adeguò alla vita di montagna. Si facevano crescere la barba, spaccavano legna, collezionavano fucili antichi, piantavano marijuana nei boschi e cominciavano a vestirsi come dei pistoleri di frontiera del diciannovesimo secolo, con canotte di lana e camicie di denim e stivali da cowboy. “Non assomigliavano a nessuno che avessimo mai incontrato”, ricorda il musicista folk Happy Traum, che si trasferì a Woodstock l’anno precedente. “Sembravano arrivare da un altro mondo”.

Nonostante la sua tradizione di colonia artistica – chiunque aveva vissuto lì, dal pittore Milton Avery al compositore John Cage, fino al jazzista Charles Mingus e all’attore Lee Marvin –, Woodstock era prevalentemente una cittadina conservatrice della working class, e i residenti non erano entusiasti all’idea degli hippie dai capelli lunghi e dei musicisti folk che avevano preso a trasferirsi in zona. Gli Hawks erano diversi: si erano adeguati al contesto. “Li vedevi dal ferramenta, o a bere birra con i pompieri”, ricorda un abitante del luogo. “Avevano vivacizzato la città”.

I locali preferiti dagli Hawks erano il Café Espresso, una caffetteria in stile beatnik tipo quelle del Greenwich Village, dove Danko dominava nelle partite di dama (e dove Dylan, in un appartamento al piano di sopra, scrisse Another Side of Bob Dylan), e Deanie’s, un piano bar che cucinava anche hamburger, dove Manuel improvvisava fino a tardi con Paul Butterfield e altri musicisti. La band faceva amicizia facilmente. “Quando arrivarono i ragazzi, fu impossibile riuscire a farsi una storia con qualsiasi donna nel raggio di chilometri”, ricorda il capo del consiglio comunale di Woodstock, Jeremy Wilber, che ai tempi aveva diciassette anni, “perché erano tutte innamorate di loro”. “Eravamo l’attrazione principale della città”, ammette Robertson. Oltre alle ragazze, Danko e Manuel erano arrivati a conoscere a fondo anche i poliziotti locali: riuscivano sempre ad andare a sbattere con le loro auto da qualche parte a tarda notte.

Hudson, Manuel e Danko affittarono una tipica casa a due piani da sobborgo americano, dipinta di rosa e nel bel mezzo di un podere da 100 acri, per 125 dollari al mese; Robertson e la sua ragazza optarono per una baita nei paraggi. Si svegliavano attorno a mezzogiorno, Manuel preparava la colazione, Hudson lavava i piatti e poi si facevano una canna e tornavano nel seminterrato a lavorare alle loro canzoni. “Quell’orrenda casa rosa divenne il nostro club personale, Big Pink”, dice Robertson. “Quando arrivavano in città i Dead End Kids o i Bowery Boys, era il posto in cui ogni giorno venivano a cazzeggiare”.

Il seminterrato era costituito da blocchi di cemento, e da un pavimento di cemento grezzo; bisognava spegnere la caldaia quando suonavano. Hudson installò un registratore a due piste, un mixer Kagra da due soldi e molti microfoni Neumann di alto livello. Dopo che Dylan si riprese dalle sue ferite, si univa alle session quasi tutti i pomeriggi. Nei nastri che Hudson registrò alla fine della primavera, molti dei quali non sono mai stati pubblicati ufficialmente, si percepisce una pigra sensazione di divertimento e sperimentazione, con Dylan che guida la band attraverso standard country e folk, brani tradizionali degli Appalachi, blues, gospel e canzoncine scherzose inventate sul momento, tipo See you later, Allen Ginsberg. “Un sacco di canzoni ci facevano divertire e basta”, racconta Robertson. “Amavamo l’idea di avere la libertà di fare musica che nessuno avrebbe mai ascoltato”.

Al piano di sopra c’erano due macchine da scrivere, e ben presto Dylan cominciò a dattilografare nuove canzoni, spesso parecchie al giorno. “Era strabiliante”, dice Hudson, “vedere Bob che saliva le scale e scriveva una canzone senza neanche una cancellatura o un errore, per poi registrarla tutti insieme quando tornava giù”. Per la fine dell’estate aveva registrato più di trenta nuovi brani, tra cui Million Dollar Bash, Tears of Rage (scritta insieme a Manuel), This Wheel’s On Fire (scritta insieme a Danko), I Shall Be Released e Quinn the Eskimo. Fu la serie di inediti più prolifica della sua carriera. “È così che bisognerebbe registrare”, spiegò a Rolling Stone nel 1969. “Nel seminterrato di qualcuno, in pace e relax, con le finestre aperte e un cane sdraiato sul pavimento”. In effetti c’era davvero un cane, un bastardo vagabondo dal pelo nero di nome Hamlet che Dylan non era mai riuscito ad addestrare, ragion per cui lo aveva lasciato a Big Pink con Danko.

Per tutta l’estate le radio locali suonavano Hendrix, Sgt. Pepper e i Jefferson Airplane. Hudson ricorda che la voce di Grace Slick lo mandava in trance. E gli ospiti di Big Pink – Allen Ginsberg, Wavy Gravy e Peter, Paul and Mary, tra gli altri – spesso portavano con loro nuovi dischi. Ma l’esplorazione musicale di Dylan e della band era ben lontana dal rock psichedelico. “Sapevamo ciò che succedeva là fuori, ma eravamo isolati”, spiega Robertson. “È questo che ci ha aiutato. Eravamo in giro già da troppo tempo per farci prendere dalle mode. Non ci rendevamo conto che ci stavamo ribellando alla ribellione. Cercavamo solo di fare qualcosa di onesto e senza tempo”.

In autunno Dylan andò a Nashville per registrare John Wesley Harding, e la band – con Helm di nuovo in pista – cominciò a registrare il suo debutto, Music from Big Pink. La gente in città li chiamava semplicemente “the band” (nel senso di “la band di Dylan”) da così tanto tempo che decisero di tenere il nome. “La città ci accolse e ci trattò come i suoi figli prediletti”, scrisse Helm nella sua autobiografia, This Wheel’s on Fire. “Se qualcuno chiedeva ‘La band è in città?’, non poteva che parlare di noi”.

In agosto i promoter locali organizzarono il Sound-Out Festival, una rassegna all’aperto di tre giorni che diventò il prototipo dell’immensa Woodstock Music and Art Fair di due estati dopo. Centinaia e centinaia di persone si riversarono in città per il Sound-Out; si accamparono, si drogarono e assistettero ai concerti di artisti locali come Cat Mother, la Chickie Neubles River Band e il cantante folk Tim Hardin, che era così fatto che cadde dal palco.

Mentre il numero degli hippie che si stabilivano in città aumentava, i residenti si lamentavano della gente che dormiva nei boschi di loro proprietà o faceva il bagno nuda nel fiume Sawkill. I poliziotti stazionavano alla fermata dell’autobus, intimidendo gli hippie e spesso allontanandoli. Un sacco di ragazzi si presentavano lì in cerca di Dylan. “Scendevano dall’autobus chiedendo ‘Dov’è Bob? Devo dirgli una cosa’”, ricorda Wilber. Le droghe pesanti stavano diventando molto diffuse, soprattutto l’eroina. Il Woodstock Week riportò che nell’estate del 1967 un agente della narcotici in incognito arrivò in città fingendo di essere un dirigente della compagnia di navigazione Cunard. Affermò di essere lì per acquistare dipinti di artisti locali per le loro navi da crociera, ma in realtà puntava ad arrestare gli spacciatori. “Dopo Music from Big Pink e John Wesley Harding”, dice Robertson, “si era sviluppata un’aura mistica attorno a quelle montagne. Raccontavamo alla gente che la vita era semplice e che non c’era poi molto da fare lì, ma la cosa non li frenava. E tutto questo ha portato al Festival di Woodstock. È stato allora che la situazione si è ribaltata completamente; è lì che tutto il fascino rustico del luogo è andato a farsi benedire”.

Il Festival di Woodstock del 1969 (che in realtà si è svolto a Bethel, ottanta chilometri più a sud) mise in scena una vera e propria invasione hippie, la versione locale della Summer of Love a Haight-Ashbury del 1967. Centinaia di giovani si precipitarono in città, molti dei quali senza soldi o un posto dove stare. “C’erano furgoncini Wolkswagen a perdita d’occhio, tutti diretti qui”, afferma Robertson.

Moltissimi musicisti stavano andando a Woodstock. Van Morrison si era trasferito in città nel 1969, e Jimi Hendrix e Janis Joplin trascorsero un lungo periodo qui. George Harrison andò da Dylan per il Ringraziamento nel 1968, e anche Eric Clapton fece un salto. Grossman, il manager di Dylan, aprì uno studio all’avanguardia, il passo successivo nel rendere Woodstock la mecca del rock’n’roll che aveva sempre sognato. “Se eri parte della scena, era grandioso”, dice Traum a proposito delle sfarzose feste che Grossman dava nella sua casa di Bearsville. “Ma non era una situazione aperta, sul genere ‘Venite tutti’. Era davvero un raduno di star. C’era una specie di alone di stelle attorno a tutta la faccenda”.

Oggi Woodstock resta una città rock’n’roll per eccellenza, e non solo perché c’è il Circolo di Amanti della Batteria il sabato pomeriggio al Village Green e negozietti psichedelici lungo Tinker Street. La stazione radio locale, la WDST, è un punto di riferimento per il rock indipendente, e nascosti tra le montagne ci sono alcuni dei migliori studi di registrazione, dove chiunque, da Norah Jones a Dave Matthews, registrano. I musicisti gravitano ancora in quell’area: tra i residenti si contano Donald Fagen, alcuni membri dei B52’s e dei Bad Brains e perfino David Bowie, un tempo. E dopo tutti questi anni, nel terzo millennio due dei tre membri superstiti della Band erano ancora lì: Helm organizzava due volte a settimana degli eventi dal vivo nel suo fienile, chiamati The Midnight Ramble, e Hudson è molto richiesto come turnista e insegnante di musica. “È sempre stato un posto speciale per noi”, dice Hudson, girovagando nella sua Saab nera in un piovoso pomeriggio primaverile. “Gli indiani lo consideravano un luogo sacro, e anche noi”.