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Tutte le ombre di Whitney Houston

La vita (professionale e privata) di una grande artista alla luce delle rivelazioni arrivate dopo la morte

Tutte le ombre di Whitney Houston

Whitney Houston. Due parole, un nome e un cognome. Una diva. Carriera folgorante, indimenticabile come le sue canzoni: da All at once a So emotional, passando per I wanna dance with somebody e I will always love you, giusto per citarne alcune. I successi sono stati tantissimi, così come i record battuti che l’hanno resa una delle donne di maggior successo discografico: solo negli Stati Uniti ha venduto circa 55 milioni di dischi certificati dalla Recording Industry Association of America. Le vendite complessive di album e singoli, invece, si attestano intorno ai 200 milioni di copie. Nel 2006 il Guinness dei Primati l’ha addirittura dichiarata “l’artista più premiata e famosa di tutti i tempi”.

I riconoscimenti, però, non sono andati di pari passi con la vita privata. Se prima della sua morte (al Beverly Hilton di Los Angeles) l’avevamo conosciuta come una donna fragile, in balìa delle droghe, dopo la sua scomparsa si sono aggiunte altre ombre. Una su tutte: quella di una donna sul baratro, prigioniera di un’esistenza fatta di tante bugie e cose non dette come la (non più tanto) presunta relazione omosessuale con la sua assistente e amica Robyn Crawford. Del resto, come si evince anche dal documentario Whitney: Can I be me?, la Houston non ha potuto mai pienamente essere se stessa. Cosa che, probabilmente, l’ha portata a fare scelte sbagliate per uscire dalla gabbia dorata che le era stata creata intorno.

Lei, simbolo della borghesia cattolica nera, la brava ragazza dal sorriso rassicurante, con una mamma che cantava nel coro gospel e una cugina del calibro di Dionne Warwick, non poteva permettersi di dare un’altra versione di sé stessa. Quello che probabilmente – oltre ai farmaci e alla droga – ha ucciso Whitney è stata la difficoltà di fingere in un mondo di apparenze. La relazione con la Crawford è diventata di dominio pubblico (nonostante i rumors insistenti) anche grazie all’ex marito Bobby Brown, che ha svelato alla rivista americana US Weekly, i segreti intimi, confermando i rapporti omosex tra la Houston e la sua assistente. Rapporto che la cantante aveva sempre smentito come fece alla Repubblica del 19 aprile 1988, quando ammise «Non sono gay. Robyn Crawford è la sorella che non ho mai avuto». Nello stesso articolo parla anche di Gesù come «la persona che ammiro di più» ricordando il suo debutto in una chiesa battista: «Ero terrorizzata dalla gente che mi guardava, nessuno si muoveva, sembrano in trance. Io stavo in piedi al centro della chiesa. Quando finii di cantare tutti applaudirono e urlarono. Da quel momento seppi che Dio mi aveva benedetto». Tanto per fugare ogni dubbio sull’immagine della brava ragazza tutta casa e chiesa.

Secondo Brown, Whitney non ha mai detto di avere avuto rapporti con donne per rispetto verso i genitori. Lo conferma un’intervista che la madre, Cissy Houston, fece con Oprah Winfrey, dopo la morte della figlia. Alla domanda diretta della conduttrice: «Ti avrebbe dato fastidio se Whitney fosse stata gay?». La risposta è una e una sola: «Assolutamente sì, non lo avrei accettato». Voci insistenti affermano che, per evitare lo scandalo e la relazione tra le due, nel 1990, i genitori della star avrebbero sborsato una consistente cifra. Addirittura il matrimonio sarebbe stato celebrato per coprire la relazione tra le due donne. Per questo Brown è convinto che il silenzio su questo amore sia stata la rovina dell’ex consorte.

In Italia chi ha avuto modo di lavorare a stretto contatto con la Houston è Arianna d’Aloja, storica figura della Rca/Bmg, oggi Sony. È lei che ha seguito l’ugola d’oro fin dall’uscita del primo album Whitney Houston e che la portò in promozione in Italia nel 1987, quando partecipò a Sanremo e Baudo chiese il famoso bis: «Quello al Festival si rivelò un passaggio clamoroso. Mentre si esibiva sul palco dell’Ariston ero dietro le quinte con i suoi genitori, John e Cissy, quando arrivò Pippo e chiese se poteva farle fare un bis. Nella confusione generale i genitori diedero subito un ok e Pippo chiese in diretta di far riavvolgere il nastro: Whitney si esibiva cantando dal vivo su base. Quella fu la sua prima esibizione in Italia e la standing ovation dell’Ariston la consacrò immediatamente come immensa star, mentre in America era già famosissima da un paio d’anni».

Whitney Houston è stata trovata morta nella stanza di un hotel a Beverly Hills l’11 febbraio 2012

Whitney Houston è stata trovata morta nella stanza di un hotel a Beverly Hills l’11 febbraio 2012

D’Aloja ricorda che «quando viaggiava Whitney era un’impresa titanica e a quei tempi i mezzi erano pochi. «Per organizzarci meglio per Sanremo, visto che non esistevano i cellulari e partivamo dall’Hotel de Paris di Montecarlo con quattro macchine, per comunicare tra noi e l’entourage usammo i walkie-talkie che chiesi in prestito a David Zard. Li utilizzavano per le produzioni nei palasport. Dopo l’esibizione a Sanremo Whitney rimase a Montecarlo per qualche giorno e nacque un rapporto di fiducia con lei, i genitori e Robyn Crawford, l’assistente che la seguiva sempre. Whitney era una 24enne allegra e solare, piena di vita e umorismo. All’apparenza era tutto perfetto, solo più tardi ho scoperto che il rapporto con la madre e con il padre, tanto per dirne una, era molto conflittuale. Però non avrei mai pensato di ritrovarla, anni dopo, in quelle condizioni».

Deus ex machina del successo della Houston era Clive Davis, leggenda della musica che cercò di non scalfire l’immagine della sua pupilla nonostante i gossip sulla storia con la Crawford. La d’Aloja crede che «Davis lo fece per proteggere la sua carriera visto che, a quei tempi, certi argomenti non erano semplici da tirare fuori. È stato il documentario di Netflix, uscito dopo la sua morte, a svelare pubblicamente tutte le sue fragilità». La carriera di Whitney nel frattempo raggiunge il suo apice. Nel 1992 arriva il film Bodyguard che la trasforma in una diva inavvicinabile, la colonna sonora del film è la più venduta di tutti i tempi, era difficile averla in Italia per promozione. Il suo coming back fu all’Arena di Verona nel 1998 con il tour che accompagnava l’uscita di My Love is Your Love. Un concerto memorabile, soprattutto per l’interminabile attesa cui sottopose la platea. «Si capiva che stata succedendo qualcosa nella sua vita. Si presentò sul palco alle 23:00, lei era molto precisa e puntuale sul lavoro e la cosa mi turbò molto», ammette la d’Aloja. «Nel retropalco il management mi informò che Whitney mi aspettava in albergo dopo il live. All’1:30 ero all’hotel Due Torri e feci avvisare la sua publicist Lynne Volkman della mia presenza. Mi fecero aspettare più di un’ora, poi incontrai prima con la madre – che mi fece grandi feste – e infine Whitney. La trovai diversa: aveva uno strano colorito e gli occhi spenti, non ne riconoscevo lo sguardo. Mi presentò la figlia Bobbi Kristina, aveva 5 anni. Chiacchierammo un po’, ma poi di punto in bianco mi chiese di scusarla un attimo e andò in un’altra stanza. Poco dopo uscì la sua bodyguard che mi disse “Time is over”. Mi lasciò trasecolata, la madre Cissy mi strinse la mano e fece uno sguardo come per dirmi di avere pazienza e cercasse la mia comprensione».

L’anno dopo, però, sembrava che la Houston fosse tornata quella di una volta: «Organizzammo il lancio italiano di My love is your love e, oltre alle interviste stampa, accettò di partecipare al programma di Gianni Morandi C’era un ragazzo, su Rai 1. Fu impeccabile, Gianni le chiese intimidito se, oltre al brano in promozione, potevano fare un duetto e lei, a sorpresa, accettò. Cantarono All at once con un Morandi incredulo».

La vita, però, non lascia tregua a Whitney ed escono le storie di droga e della burrascosa storia con Bobby Brown. Nel 2009 il rilancio con I look to you passa nuovamente per l’Italia e per X-Factor. «Mi mandarono a seguirla perché sapevano che la conoscevo da tanti anni», confessa D’Aloja. «Lynne Volkman, la publicist, mi disse di aspettarla fuori dall’ascensore per vedere se mi avrebbe riconosciuto. Quando mi vide mi abbracciò. Fu molto emozionante, ci siamo commosse, senza dirci nulla». La performance al talent show, però, non fu delle migliori, ma il peggio doveva ancora arrivare. Nel 2010 venne in Italia per i concerti a Milano e Roma e lì fu un disastro. Matteo Cruccu, sul Corriere, usa parole dure: «Pause, note steccate, cronaca di una performance penosa. Come fosse un lungo, triste, requiem […] Gonfia, stanca, invecchiata precocemente, pause continue».

Fu l’ultima volta che, anche D’Aloja la vide. Poi la scomparsa prematura: «La publicist Lynne mi disse che erano tutti sconvolti. Credo che Whitney abbia vissuto due traumi: la difficoltà di entrare nel ruolo di superdiva dovendo sostenere una pressione veramente enorme con interminabili tournée live e promozionali in tutto il mondo. E un successo che l’ha forzata a mantenere un’immagine che non le apparteneva». Probabilmente, stando a quello che dicono i media, il colpo di grazia glielo ha dato Bobby Brown. La stampa ha fatto più volte intendere che tutto è degenerato con lui, facendo morire un’artista anni prima della donna. Quello che ci resta, oltre ai brani immortali, è il sorriso dolce di Whitney, uno sorriso che, finché ha potuto, ha cercato di coprire il buio e le crepe di una vita tutt’altro che felice.

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