The Cure: il primo "Three Imaginary Boys" compie 40 anni | Rolling Stone Italia
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The Cure: il primo “Three Imaginary Boys” spegne 40 candeline

Quella a spingere i Cure non era certo la sete di fama, piuttosto l'urgenza di tre ragazzi neanche ventenni di Crawley che, l'8 maggio '79, ci fecero capire che nulla sarebbe stato come prima

The Cure: il primo “Three Imaginary Boys” spegne 40 candeline

The Cure

Foto: Rob Verhorst/Redferns

A vederli oggi, su quei palchi faraonici sempre più totalizzanti, con cinque schermi sullo sfondo, uno per ciascuno dei componenti della band, i filmati di Nick Wickham creati appositamente prima del concerto, i laser a comporre una ragnatela durante l’esecuzione di Lullaby, si fatica a credere che anche i Cure siano stati dei debuttanti che si esibivano davanti a una manciata di spettatori. Suonando con chitarre comprate per poco più di venti sterline.

Eppure è così che li descriveva, nel dicembre del 1978, Adrian Thrills. Il redattore di NME venne mandato in avanscoperta dal suo capo, Nick Logan, al New Windsor Castle di Harrow Road dove il cantante/chitarrista Robert Smith, il bassista Michael Dempsey e il batterista Laurence Tolhurts si esibivano di supporto ai The Young Ones. Nonostante avesse ospitato gente del calibro degli Who e dei Rolling Stones, la location londinese di un castello aveva in realtà assai poco: con una capienza di qualche decina di persone e scritte che dai muri arrivavano fino al soffitto, immaginiamo che la casa reale dei Windsor se ne tenesse a debita distanza. Ma alzi la mano chi di voi è convinto che per fare musica, della buona musica, occorrano per forza strumenti costosi, migliaia di spettatori (e magari tutti con i relativi cellulari) e una location altisonante.

Del resto, quella che spingeva i Cure non era certo la sete di fama e successo, ma piuttosto l’urgenza di tre ragazzi neanche ventenni di Crawley, un avamposto nell’esteso hinterland a sud di Londra fatto perlopiù di villette a schiera di color bianco o salmone e parchi dove drogarsi. Non a caso Thrills li descriveva come un terzetto compatto, impulsivo e spontaneo. Un crogiolo d’energia guidato da un talentuoso Robert Smith già capace factotum; diviso tra il ruolo di cantante, chitarrista e fonico di palco. La stessa chitarra di quel periodo, un’improbabile Woolworth Top 20, sarà poi ripresa da Alex Turner degli Arctic Monkeys per creare – 25 anni dopo – il proprio sound. Robert suonava secondo la moda dell’epoca, anni luce distante dall’iconografia goth che lo avrebbe caratterizzato e talvolta ridicolizzato, portando un eskimo verde militare per distinguersi dai compagni in camicia bianca, ma aveva già le idee chiare. “Potremmo firmare un contratto con un’etichetta tedesca ma loro ci vorrebbero come la solita banale band – affermava – Ci sono così tanti gruppi che fanno roba assolutamente inutile e ottengono risultati, perché non dovremmo riuscirci noi che siamo molto meglio?”. L’etichetta in questione era la Ariola-Hansa, allora specializzata soprattutto in disco e soul music, che scaricò i Cure ancora prima di incidere un solo brano – per poi mangiarsi entrambe le mani e mettere sotto contratto affini come Siouxie Sioux, Japan e Depeche Mode.

The Cure - Three Imaginary Boys

Un mese dopo quel concerto, uno dei demo incisi dai Cure finì tra le mani di Chris Parry, produttore della Polydor e deus ex machina dietro quei Jam a cui il diciannovenne Robert Smith aveva rubato il caschetto – di sicuro più vicino a Paul Weller che a Rozz Williams dei Christian Death. Il risultato fu Killing An Arab, primo singolo e apripista del futuro debutto della band, quel Three Imaginary Boys che proprio oggi compie quarant’anni. Ispirato da Lo Straniero di Albert Camus, Killing ha creato sempre non poche rogne alla band.

Accusati fin da subito di razzismo e incitamento all’odio (immaginate da soli cosa successe, in tempi più recenti, dopo l’11 settembre 2001), Robert Smith ha sempre risposto: “Non è colpa mia se il protagonista ha ucciso un arabo, poteva essere un inglese o uno scandinavo, non può essere un problema mio se voi non avete letto il libro”. Così, all’ingenua pretenziosità dal vago sapore d’arte concettuale della veste grafica (su sfondo rosa pastello, un frigo rappresenta Lol, una lampada Robert e un aspirapolvere Michael) e una serie di dodici canzoni (o tredici, se si conta il pastiche conclusivo di The Weedy Burton) scarne e semplici, fa da contraltare una lampante e già composita tematica esistenzialista proposta nei testi.

Ne venne così fuori un album più vicino al post-punk che alla wave. Più disilluso che romantico. Di sicuro non pop, non di proposito almeno, ma ancora sorprendentemente attuale. Paul Marrey, nella sua storica recensione pubblicata a quattro giorni dopo la sua uscita, scrisse “I Cure cercano di dirci qualcosa. Cercano di dirci che non esistono. Cercano di dirci che tutto è vuoto ed effimero”. Eppure nulla come questo disco lascia comprendere così vividamente come i Cure amino interagire con il pubblico per assonanze, onomatopee e déjà vu uditivi. Creando di questo passo un mondo vivido, proprio come la chitarra iniziale, esotica e sognante, di Killing An Arab ci portava ad Algeri molto più di quanto Night Boat In Cairo degli Specials, uscita nello stesso anno, ci portasse nella capitale dell’Egitto. Dove “il rubinetto che gocciola” dell’iniziale 10.15 Saturday Night è così reale che quasi lo si può vedere; dove la “brusca frenata” di Granding Halt è tanto imprevedibile che tronca la voce di Robert Smith impedendogli di terminare la frase; dove i passi del pedinamento di Subway Song non sono solo una paranoia della malcapitata ragazza. Tutto sorretto dalla voce sofferta e fatalista di Robert Smith. E il resto non è da meno. Da Accuary a Fire In Cairo, per la depressione cromatica di Another Day e il nichilismo della stupenda title-track, Three Imaginary Boys e un disco che oggi avrebbe le stesse opportunità di successo che ebbe quattro decenni fa.

Anzi, fa sorridere che all’epoca un redattore di Melody Maker, Ian Birch, li accusò, dopo l’uscita della celeberrima Boys Don’t Cry, nello stesso anno, di essere degli ipocriti che, dopo averla menata con un debutto pastoso e carico di sonorità trascendentali, si limitavano a sfornare una traccia che suonava “so ORDINARY”. Sappiamo tutti infatti come andò realmente: grazie a quel brano, che oramai conoscerà anche vostra madre, Three Imaginary Boys venne ripubblicato negli USA col titolo Boys Don’t Cry e una tracklist rafforzata dai tre singoli fino ad allora pubblicati (il già citato Killing an Arab, Boys Don’t Cry e Jumping Someone Else’s Train) e l’omissione di alcuni vecchi brani considerati deboli dalla Fiction Records (Foxy Lady di Jimi Hendrix cantata da Dempsey, Meat Hook e It’s Not You).

Un disco d’oro, uno di platino e il cambio di line-up – con l’ingaggio di Simon Gallup al basso – traghettarono i Cure verso il periodo più gotico della loro carriera: la trilogia composta da Seventeen Seconds, Faith e Pornography. Ne seguirà una svolta pop con una formazione allargata fino a sette elementi e il connubio delle due cose che li contraddistingue dal 1987 a oggi. O forse era tutto già scritto. In quei solchi di neanche 35 minuti in cui tre ragazzi immaginari ci fecero capire che nulla sarebbe stato come prima.

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