Steve Vai: «Solo un idiota poteva pensare di competere con Eddie Van Halen» | Rolling Stone Italia
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Steve Vai: «Solo un idiota poteva pensare di competere con Eddie Van Halen»

Prima mezzi rivali, poi amici. Il grande chitarrista racconta com’è andata: i pomeriggi a improvvisare da Frank Zappa, il suono inimitabile, la malattia. «Ha rivoluzionato tutto, come Jimi Hendrix»

Steve Vai: «Solo un idiota poteva pensare di competere con Eddie Van Halen»

Eddie Van Halen e Steve Vai

Foto: Koh Hasebe/Shinko Music/Getty Images; Chris McKay/MediaPunch/IPx/AP

Steve Vai ed Eddie Van Halen amici? Improbabile. Quando David Lee Roth ha lasciato i Van Halen, nel 1985, come chitarrista della sua band ha ingaggiato proprio Vai, un supervirtuoso abile nella tecnica del tapping che si ispirava a Eddie. Vai ha suonato negli album Eat ‘em and Smile e Skyscraper, in tour eseguiva le parti di Van Halen. La cosa ha creato un po’ d’imbarazzo tra il chitarrista e il suo eroe, ma quando, nel 1989, Vai ha lasciato la band di Roth ha ricevuto una telefonata di Eddie. È iniziata così un’amicizia profonda, che ci siamo fatti raccontare direttamente da Steve Vai.

Sono fortunato, ho avuto un gran bel rapporto con Edward. Sapete, una delle cose che ho scoperto standogli vicino è la sua dolcezza. E l’incredibile senso dell’umorismo. Era spiritoso ed entusiasta quando faceva qualcosa che lo eccitava. Era un uomo semplice, una specie di MacGyver. Riusciva a tenere assieme le sue cose con scotch e gomma da masticare. E sapeva come farle suonava bene.

L’ho incontrato per la prima volta quando sono andato a vedere Alan Holdsworth al Roxy. A un certo punto è salito sul palco anche lui. Sono andato nel backstage e gli ho detto che stavo lavorando con Zappa. Era un fan, quindi gli ho dato il mio numero e gli ho detto che se voleva incontrare Frank, poteva farmelo sapere. Il giorno dopo il mio coinquilino mi ha detto che al telefono c’era Ed Van Halen. Gli ho dato il numero di Frank. Poco dopo il telefono ha suonato di nuovo, era Frank. Mi ha detto: «Edward Van Halen è qui, fai un salto anche tu». Sono andato a casa sua e abbiamo passato la giornata a sentire musica e suonare. All’epoca era straordinario. Ha preso una chitarra a caso, il capotasto era un po’ troppo scavato e faceva vibrare una corda. Ha recuperato un cacciavite gigantesco e l’ha infilato sotto al capotasto. Ha funzionato: abbiamo improvvisato così, con quel cacciavite che sporgeva mezzo metro.

Il giorno dopo aver lasciato la band di David Lee Roth, nel 1989, mi ha telefonato. Non so come avesse fatto a saperlo. È stato l’inizio di una bella amicizia. Per sei mesi uscivamo spesso insieme, e ho imparato a conoscerlo un po’ meglio.

Sono stato nel suo studio. Mi ha fatto sentire un sacco di cassette. Scriveva e suonava costantemente. Mi ha fatto ascoltare roba mai pubblicata, tutta perfettamente nel suo stile. Gli ho chiesto perché non facesse un disco solista, ma lui pensava che i dischi dei Van Halen fossero suoi dischi solisti. La roba che mi aveva fatto ascoltare era davvero buona. Dentro c’era tutto quel che amavamo del suo modo di suonare.

C’è una storia che penso possa interessare i chitarristi. Ero nello studio di casa mia, a Hollywood, con la mia chitarra, il rig, i pedali e l’amplificatore. A un certo punto è arrivato Edward. Chiacchierando mi ha detto: «Ti faccio vedere a cosa sto lavorando». Prende la mia chitarra, inizia a suonare e tira fuori un suono alla Edward Van Halen. Era la mia chitarra, ma non suonava per niente come me. Era il suo “brown sound”. C’era tutto quello che amiamo del suo timbro. Suonava con la mia attrezzatura e riusciva ad essere comunque sé stesso.

Il sabato mattina andavamo a giocare a softball con suo fratello e altri amici. Era fantastico. Una volta mi ha detto una cosa interessante: «Pensavo che non mi saresti piaciuto» o qualcosa del genere.

Entrare nella band di David Lee Roth mi dava la grande opportunità di suonare canzoni rock composte meravigliosamente bene. Erano grandiose. Nessuno, ovviamente, può suonarle come Edward, ma ho fatto del mio meglio. Stare sul palco con Dave e fare quei pezzi era uno spasso. Mi piaceva Unchained, per l’accordatura abbassata. Molto heavy. Pretty Woman aveva una gran melodia. Anche Panama era uno spasso. E ovviamente Hot for Teacher.

Non avrei mai potuto suonare come lui. Non ci ho neanche provato. Solo un idiota proverebbe a competere con Eddie Van Halen. Lo sapevo fin dall’inizio. Ma se suoni quei pezzi e sei un chitarrista, ne intravedi la struttura. Ed è notevole. Quando registravamo Eat ‘em and Smile con Ted Templeman, mi ha fatto sentire le tracce delle chitarre di Edward. Bastava una sola traccia, un microfono e la sua chitarra suonava come un’orchestra. Era il pacchetto completo, pieno di espressività e dinamica.

Una delle cose che finisci per imparare frequentando persone famose come lui è che devono erigere delle barriere per proteggere privacy e sanità mentale. Edward ha dovuto farlo. Ma quando ti lasciava entrare – cioè quando pensava che fossi un tipo a posto e sulla sua lunghezza d’onda – era tutto tranne che una rockstar. Era un ragazzo semplice, divertente, creativo. Tipo il tuo vicino di casa.

Eddie è riuscito a toccarci grazie al suo “orecchio interiore”. Le canzoni erano semplici e allo stesso tempo toccanti. Si percepisce la dolcezza della sua personalità – a volte poteva essere parecchio intenso, certo –, una cosa che ho visto anche conoscendolo personalmente. La sento spesso, persino nei cambi d’accordi di Jump.

Perché ha smesso di pubblicare musica? Non posso dirlo con certezza, ma se devo rispondere pensando a come i miei carichi di lavoro sono cambiati nel tempo, potrei dire che si è tenuto impegnato, ma che altre cose gli sembravano più interessanti. E credo stesse combattendo per sopravvivere.

Ho sentito quelle voci tanti anni fa. Dieci anni fa sapevamo che era malato, ho seguito gli sviluppi e alla fine, quando la cosa s’è fatta tremendamente seria, ho parlato con alcune persone. Sembrava grave e poi non lo sembrava più.

Io e Eddie siamo molto diversi e perciò a un certo punto le nostre strade si sono separate. Non l’ho visto per sette anni o giù di lì. L’ultima volta è stato nel backstage di un concerto dei Motörhead. Non sembrava in gran forma, stava attraversando un periodo particolare, ma aveva il sorriso di sempre.

Cosa abbiamo perso? Preferisco pensare a cosa abbiamo guadagnato con lui. Ogni cosa è transitoria in questo mondo. Non sappiamo quando qualcosa svanirà e quando succede significa solo che abbiamo superato il suo tempo. Mi piace pensare a quel che ci ha lasciato: è monolitico. Anni fa vi ho rilasciato un’intervista. Mi avete chiesto chi erano i chitarristi che avevano rivoluzionato tutto. A intuito, direi che nel rock ci sono Hendrix e Van Halen. Ci sono stati tantissimi grandi chitarristi, ma quei due hanno rivoluzionato sia il modo di suonare lo strumento, sia il modo di scrivere musica, di vestire, di stare sul palco. È un cambiamento profondo. Lui è uno di quei monoliti.

Dopo la sua morte, la comunità chitarristica è sotto shock. Vorrei dire questo: concentriamoci su quel che ci ha dato, perché è stato un grande dono. Era un genio.

Testimonianza raccolta da Patrick Doyle e tradotta da Rolling Stone US.

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