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Quindi, quanto vale davvero Beabadoobee?

Abbiamo ascoltato il suo primo vero album 'Fake It Flowers' per capire quanta sostanza e quanto hype ci sono nella musica di questa ventenne che ama i chitarroni e il rock alternativo anni '90

Quindi, quanto vale davvero Beabadoobee?

Bea Kristi ovvero Beabadoobee

Foto: Callum Harrison

“Avrei voluto essere Stephen Malkmus”. Ok, e chi di noi residuati bellici dell’indie rock anni ’90 non avrebbe voluto esserlo? Più strano che a proclamarlo, e ad aver scritto una canzone intitolata proprio I Wish I Was Stephen Malkmus, non sia uno slacker quaranta-cinquantenne arrivato con quei venticinque anni di ritardo alla festa del college, ma una teenager inglese di origini filippine, con i capelli blu e il nome d’arte che riprende quello di un suo vecchio account Instagram (falso).

Bea Kristi, alias Beabadoobee, è quello che nel pigro gergo giornalistico si definisce un caso, ma – come dimostra Fake It Flowers, il suo primo album freschissimo di uscita, e come peraltro già adombrava la sfilza di EP pubblicati negli ultimi tre anni – forse c’è qualcosa di più e di meglio di una buona storia da raccontare. Certo, gli elementi chiave dello storytelling da rivendere a grandi (soprattutto) e piccini (speriamo) ci sono tutti. C’è una giovanissima protagonista dotata di talento e con gusti musicali agli antipodi da quelli dei suoi coetanei, con in più una infanzia e una adolescenza segnate dal suo essere “diversa” non solo nella sensibilità, ma anche nei tratti somatici. Insomma la più classica delle outsider-sola-contro-il-mondo. C’è la svolta narrativa sotto forma del colpo di fortuna: un giorno tornando a casa da scuola, scazzata come solo una adolescente può esserlo, prende la chitarra del padre e scrive una sbilenca e graziosissima canzone folk-pop chiamata Coffee, la incide e la mette su YouTube. Risultato: centinaia di migliaia di visualizzazioni e il rapper canadese Powfu che la campiona in un pezzo diventato virale su TikTok. Non mancano neppure i pigmalioni illuminati, ossia i titolari dell’etichetta Dirty Hit che la mettono sotto contratto e le affiancano come tutor non dichiarati i golden boys di bottega, i 1975. Poi c’è l’antagonista/mostro della storia, manco a dirlo lo stramaledetto Covid-19 che le impedisce di andare in tour con i succitati 1975 e di rivedere i piani di conquista del mondo, dandole però il tempo di mettere a punto nella sua cameretta i pezzi dell’esordio. Infine (?) ecco l’happy ending nonostante tutte le avversità con, appunto, l’uscita di Fake It Flowers.

A questo punto, la domanda è scontata: hype giustificato o si trattava solo di un bel raccontino da social media? Se si riesce ad ascoltare questa dozzina di canzoni mettendo da parte il comprensibile cinismo, un po’ verrebbe voglia di sostenere la prima ipotesi. Chiariamolo subito: per chiunque abbia almeno una quindicina di dischi alternative rock usciti tra il 1990 e il 2000 (e anche un po’ più in là, ma non troppo), soprattutto incisi da musiciste, non c’è nulla ma proprio nulla di nuovo. L’album di famiglia è quello che ci si può aspettare, e mettersi qua a snocciolare nomi è operazione pleonastica e vagamente crudele. Facciamolo comunque: in ordine di apparizione abbiamo le Breeders (la traccia di apertura Care, uno dei cinque brani già noti, chissà di quante centinaia di ascolti di Cannonball è figlia), poi alla spicciolata si riconoscono Liz Phair, le Hole meno brutali (in Sorry specialmente), Juliana Hatfield, Jewel, Kristin Hersh e Tanya Donelly, quel tanto di shoegaze che non fa mai male. Paradossalmente il nome che viene in mente più spesso, per gli esegeti del genere, è quello maggiormente di culto: Mary Lou Lord. La somiglianza vocale e delle linee melodiche talvolta è impressionante. Essendo stata la Lord intima di personaggi come Kurt Cobain e Elliott Smith, non dovrebbe sorprendere che una ragazza del 2000 che adora i Nirvana e ha “XO” tatuato sul braccio la conosca.

Al di là dei riferimenti e delle citazioni d’epoca talmente esplicite da essere quasi tenere (che dire di titoli come Emo Song oppure Yoshimi, Forest, Magdalene?), e al di là del fatto che questo genere di cose è infinitamente più “alternativo” oggi di quanto lo fosse nei beati anni ’90, va detto che le canzoni sono tutte molto ben costruite e prodotte in modo eccellente (tanto di cappello alla Dirty Hit per come la sta seguendo), suonano bene e suonano soprattutto sincere nel piglio. Una giovane donna che parla di amori complicati, amicizia, noia adolescenziale, del suo mondo a tratti un po’ troppo insulare tra social, scuola, dischi e, ahinoi, pure il lockdown. Social e lockdown a parte, l’eterno materiale del pop più o meno teen dai 60s a oggi passando per (rieccoli) i famigerati 90s.

Se si riesce a godersi del buon pop senza tirare costantemente in ballo le nuove gerarchie di generi, l’ascolto di Beabadobee può risultare molto gradevole e tutto sommato anche contemporaneo. L’unica particolarità è che il suo è il linguaggio di una “zoomer” che si è trovata in casa i dischi delle Veruca Salt e il dvd di Giovani, carini e disoccupati. L’augurio alla talentuosa Bea è che non diventi un feticcio per gente con trent’anni più di lei che non riesce a scrollarsi di dosso la nostalgia per “quel” decennio e “quella” musica («Anche i giovani fanno indie! anche la generazione Instagram usa le chitarre! non siamo così vecchi e sorpassati! metti su i Pixies!»): sarebbe triste e anche un po’ morboso. La speranza è invece che siano i suoi coetanei e coetanee a riconoscersi in queste canzoni. Il formato musicale, alla fine, è solo una variabile. E chissà che qualcun altro, tra qualche anno, non scriva un pezzo intitolato I Wish I Was Beabadobee.

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