Perché a One World: Together at Home c’era poco rap? | Rolling Stone Italia
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Perché a One World: Together at Home c’era poco rap?

Tutti “insieme a casa” davanti a computer e tv, ma senza hip hop. Non sembra un caso di discriminazione. Un’ipotesi: i rapper diffidano dagli eventi trasversali e multigenere

Perché a One World: Together at Home c’era poco rap?

Common a 'One World: Together at One'

Nel Together At Home organizzato da Lady Gaga con Global Citizen e l’Organizzazione Mondiale della Sanità, sabato 18 aprile si sono visti tanti nomi enormi della musica. C’erano le leggende: Paul McCartney, Rolling Stones, Elton John, Stevie Wonder. C’erano popolarissime star della nostra epoca: Billie Eilish, Lizzo, Taylor Swift, Sam Smith, Charlie Puth, Camila Cabello e Shawn Mendes. C’erano tanti altri, da tutti i Paesi del mondo Italia compresa, che non nominiamo semplicemente per non farla lunga. Però mancava qualcuno, anzi, qualcosa: l’hip hop.

Nell’evento sono reperibili solo pochissime tracce di uno dei generi musicali più ascoltati sul pianeta. Nella line-up mobilitata da Lady Gaga si possono ricondurre al rap giusto le vecchie glorie LL Cool J e Common (Sense), e due star africane poco note nel mondo occidentale, il nigeriano Burna Boy e la sudafricana Sho Madjozi.

È un’assenza troppo eclatante per sembrare casuale. Certo sembrerebbe da escludere a priori una scelta da parte della direzione artistica: Lady Gaga non pare proprio il tipo che coltiva ostilità pregiudiziali di tipo musicale o addirittura di razza. Difficile anche chiamare in causa problemi tecnici: a parte qualcuno che ha cercato di fare comunque il fenomeno, il concetto alla base dell’evento era quello dell’esibizione casalinga, e non solo per forza di cose ma anche per confermare che la quarantena riguarda tutti, persino Mick Jagger. Ma poi, un freestyle da casa dovrebbe essere un’inezia per un rapper che si rispetti, almeno quanto una Lady Madonna dallo scantinato di Paul McCartney.

A voler malignare si potrebbe sospettare che qualcuno, dopo tanti video di ostentazione di ville con piscina nelle quali tuffarsi con tutti i Rolex intanto che decine di bimbos twerkano felici, abbia avuto un soprassalto di sobrietà, magari dovuto al fatto che i fan si sarebbero depressi a vedere i loro idoli così privi di swag. Eppure uno come Drake, di solito più che disponibile ai fundraising, avrebbe potuto tranquillamente esibirsi in modo dimesso da uno dei 35 mila metri quadrati della sua villa da 100 milioni di dollari, The Embassy. Tanto più che il suo nuovo video Toosie Slide è sostanzialmente una rapida visita guidata in tutto il suo sfarzo (e peraltro comunica di per sé un certo spiazzante senso di autoisolamento).

Forse però c’è un altro motivo sotterraneo: l’ambiente del rap è diffidente quando si tratta di eventi trasversali, specie se c’è della beneficenza coinvolta. Un precedente problematico in questo senso è il Concert for Hurricane Relief organizzato dalla NBC nel settembre 2005 a favore delle vittime dell’uragano Katrina a New Orleans. In quell’occasione Kanye West, non ancora diventato amicone di Donald Trump e dei repubblicani, si scagliò in diretta contro il presidente in carica, dicendo: «George Bush se ne frega dei neri». La NBC censurò le sue parole nell’edizione in onda poche ore dopo per la parte occidentale degli Stati Uniti. La sensazione, da parte della comunità afroamericana, fu che West avesse detto quello che andava detto – e suscitò alcune iniziative di orgogliosa controrisposta. Per esempio un concerto di soli artisti hip hop ad Atlanta, e uno show benefico organizzato dalla BET (Black Entertainment Television, di proprietà della Viacom) esplicitamente intitolato Saving Ourselves: tra i presenti, Q-Tip e Jay-Z. Persino Michael Jackson meditò di incidere una canzone con soli artisti neri, con James Brown, Snoop Dogg, Lenny Kravitz, Lauryn Hill e altri big (non se ne fece niente, ma sarebbe stato interessante).

Così la comunità rap in quell’occasione e anche in seguito, ha iniziato a fare corsa a sé – e aggiungiamo che non è da escludere che sempre da quell’episodio del 2005 discenda un eventuale invito preventivo agli artisti ad autocensurare testi e discorsi, che potrebbe esser stato sgradito ai rapper. Ma per ora, nessuno ha sollevato la questione della loro latitanza. Chissà, forse siamo solo noi a trovare la cosa strana. Forse, semplicemente, tutti i rapper, sabato 18, avevano judo.

Oppure, al di là dei motivi politici, il problema potrebbero essere gli eventi multigenere e il loro appeal per un pubblico veramente ampio. Anche in Italia sappiamo bene che i festival con esponenti di generi diversi fanno più fatica di quelli tematici. Nel qual caso, forse quella vecchia idea che la musica unisce non è completamente vera. L’algoritmo di Spotify sa, ma non parla.

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