Le reunion estive sono il fast-food di chi dice di amare la musica | Rolling Stone Italia
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Le reunion estive sono il fast-food di chi dice di amare la musica

Pure Gesù Cristo, se apparisse ogni dieci anni al Coachella a fare il giochino dei pani e dei pesci, finirebbe per fare la figura del peracottaro. O no?

Le reunion estive sono il fast-food di chi dice di amare la musica

Emma McIntyre/Getty Images for KROQ/Entercom

“Da bambino guardavo le copertine delle riviste di musica e sognavo la fama e il successo. Ma ho scoperto presto che sono tutte balle. Passi la vita stipato in un furgone maleodorante barcamenandoti tra affari più o meno puliti. Se vuoi fare il musicista, queste sono le condizioni a cui sottostare.”
Ethan Miller

Non ci sono né fischi né fiaschi, nel mondo della musica alcuni individui godono di uno status assai speciale che li rende diversi dai loro simili. Già, dai loro simili, se si intende la musica solo su base meritocratica e non con come arte merceologica piena di infinite sovrastrutture. Roba insomma da far venire il mal di testa anche a uno come Karl Marx.

È il sogno di ogni band e artista, e quando ci si riesce si è entrati a pieno titolo nella Storia della Musica. Lo chiamo con simpatia “Effetto Johnny Rotten”, dal nome del più celebre di questi individui. È infatti stato lui il primo (o di sicuro è quello che si è esposto di più) a rendersi conto che, per fare il musicista, non bisogna poi necessariamente avere un disco all’attivo. Di più. Non bisogna necessariamente avere neanche un gruppo all’attivo. Basta soltanto che la gente si ricordi direttamente (perché quel periodo l’ha vissuto) o indirettamente (perché glielo hanno raccontato) che un tempo hai fatto buona musica. Pure se questo “periodo” è durato poco più di una scureggia (nel caso dei Sex Pistols dal 1975 al 1979, ossia quanto i dARI, per capirci). Basta che del gruppo ci si ricordi almeno una delle canzoni che ha scritto. Black Sabbath? Paranoid. Sex Pistols? Anarchy In Uk. Duran Duran? Wild Boys. Eagles? Hotel California. Pixies? Where Is My Mind. Beach Boys: Surfin’ USA. Il gioco potrebbe andare avanti per ore e ore.

Ma diciamolo una buona volta: le rimpatriate estive di questa gente sono perlopiù il fast food di chi dice d’amare la musica. L’uscita di emergenza. La discografia di Frank Zappa scaricata in una notte. Il “ti piace vincere facile” che ha ingolfato le nostre esistenze, perfino musicali. Non fraintendetemi, non è solo perché oramai, se togliamo le Kandeggina Gang di Jo Squillo, una capatina a un festival estivo l’hanno fatta tutti; e nemmeno per la tristezza nel vedere fisiologicamente imbolsiti dagli anni coloro che avevamo lasciato in forma smagliante. C’è soprattutto questo sforzo sgradevole da New World Order nell’appiattire tutto. Di volere (ri)creare un passato artefatto, anti-romantico e spogliato di qualsiasi senso poetico. Plasmando una sorta di customer experience, come si trattasse oramai di un’offerta qualunque in un modesto Blockbuster. “Non eri nato? Qual’è il problema? Pacchetti 3×2! Rivivi l’emozione di Woodstock all’Idroscalo di Milano con Joan Baez a 78 anni, uno a caso degli Crosby, Stills, Nash & Young e Santana col pitale, ospite speciale: Gué Pequeno!”.

Scorrere in giro il cartellone dei concerti in programma è pari allo sfogliare le pagine dei necrologi su un giornale o un numero a caso di Cronaca Vera. I finti (c’è solo il chitarrista) Black Flag, gli Interpol che rifanno tutto Antics per festeggiare i quindici anni dall’ultimo disco decente realizzato, i Tool con una voglia di suonare che non ti dico, gli Smashing Punpkins reduci da un disco uscito il 16 novembre e finito nelle offerte già a Natale, gli Slayer che si erano sciolti ma poi si sono ricordati della data extra del mutuo, i Kraftwerk o i loro manichini tanto oramai non se ne accorge nessuno, eccetera.

Okey, immagino che molti di voi ora mi stiano dando (se mi dice bene) del misero. Di quello che la fa tanto tragica perché può permetterselo, visto che anagrafe e lavoro gli avranno dato l’opportunità di vedere la metà di questi artisti. Premettendo che quando i Beach Boys cantavano Barbara Ann mia madre aveva 15 anni, il punto non è questo. Il punto, se mai, è stato espresso involontariamente da Ozzy Osbourne alla reunion dei Black Sabbath al Download Festival di qualche anno fa: “When we first formed 40 odd years ago, I had no idea we’d be here doing this” (“Quando abbiamo formato la band più di 40 anni fa, non mi sarei mai immaginato di fare questo”).

C’è infatti una parolina che tutti ripudiano ma che per fortuna se ne fotte e continua a resistere, questa parolina si chiama tempo. Il tempo è una gran bella cosa e dovrebbe essere rispettata. Da tutti, si capisce. Non so voi che mi leggete con infinita pazienza, ma io spesso mi chiedo dove siano finiti quei tempi in cui gli zii avevano visto i Pink Floyd al Canale San Marco di Venezia nel luglio 1989 e i nipoti (viva dio!) no. Mi chiedo perché un tempo, quando dicevo di avere visto i Pearl Jam al City Square di Milano nel 1992, la gente si elettrizzava e mi chiedeva di raccontargli della scazzottata tra Vedder e un ragazzo delle prime file, invece adesso per poco non sbadiglia annoiata. Perché, se non fosse ancora chiaro il concetto, è stato in quegli anni, e con quella mentalità, che gli pseudo-big di adesso sono stati Big sul serio. Nella memoria, nel passaparola di gesta talvolta epiche e certamente irripetibili che ne rafforzavano il fascino proprio nella loro assoluta unicità. Nella sana invidia di non esserci stati e nel culto del ricordo di poter dire: “Io c’ero!”. Del resto, pure Gesù Cristo se apparisse ogni dieci anni al Coachella a fare il giochino dei pani e dei pesci finirebbe per fare la figura del peracottaro.

Quindi, prima di sbracciarvi per accaparrarvi a caro prezzo un fantomatico biglietto, controllate con attenzione se non state dando le vostre paghette al Supermercato delle emozioni forti a poco prezzo, con contorno di bevande gasate (per produrre rutti paragonabili spesso a quelli delle esibizioni che vedrete). Chiedete a voi stessi se fate parte anche dei voli del club della gente oramai priva di fantasia e offuscata da troppa multimedialità. Convinta, dal momento che su YouTube si riesce a vedere di tutto, sia normale che nella realtà avvenga lo stesso. Viceversa, continuate a supportare senza parsimonia i bei posti inediti, tutti diversi, dove la gente che ama la musica va per vivere un’emozione realmente attuale e raffrontarsi coi pregi e con i difetti dell’ascoltare musica in questi cazzo di anni Zero. Dove la musica si approfondisce e non viene presa come dogma caduto dal cielo. Come quel “Alla fine li vado a vedere perché sono storici” effettivamente sentito dire in giro. Dove il passato è un piacevole ricordo che riempie il cuore e serve per guardare con lo giusto spirito critico il presente che ci ospita (perché, come il solito Oscar Wilde diceva, “se l’arte imita, lo spirito critico crea”).

Perché a parere mio non ha senso andarsi a vedere Thurston Moore, con Giorgio Poi di spalla, sperando che da solo compensi tutti i Sonic Youth. Per lo stesso principio per cui i concerti dei Velvet Undeground del 1967 in pieno disco con la banana (che non ho visto) erano un’altra cosa in relazione all’epoca e alle persone coinvolte e, se fosse possibile rivederli oggi a Pinarella di Cervia, nel 2019, magari con i Verdena di spalla, semplicemente non avrebbe senso. Servirebbe solo ad appannare parte del mito dei primi, e a fare sembrare un po’ più cazzoni del dovuto i secondi.

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