La colonna sonora di ‘Music’ di Sia ha un problema e non è l’abilismo | Rolling Stone Italia
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La colonna sonora di ‘Music’ di Sia ha un problema e non è l’abilismo

Per buona parte del disco, la cantante ci bombarda con messaggi euforizzanti e inni ballabili da mini club. Anche meno, grazie. Ridateci la popstar che ha inventato uno stile fregandosene delle regole

La colonna sonora di ‘Music’ di Sia ha un problema e non è l’abilismo

Sia

Foto press

Sono entrato nel mondo di Music senza essermi formato un’opinione solida e definitiva in merito alle controversie che l’hanno preceduto. Mi andava bene così: volevo ascoltarlo per quello che è, un disco pop. Ne sono uscito dopo 50 minuti lievemente stordito, sopraffatto da un coloratissimo universo di suoni e ritmi, ma per nulla impressionato. Anzi, con un paio di domande in testa: che cosa sta succedendo a Sia e alla sua favola bella di cantante che inventa uno stile pazzesco fregandosene delle regole del pop? È diventata troppo ambiziosa? O forse troppo poco?

L’album di canzoni tratte e ispirate dal film diretto da Sia è un pressoché incessante assalto sonoro inframmezzato da momenti bizzarri – i migliori. È colorato, spesso animato da ritmi poco interessanti, pieno d’oggetti sonori che saltano fuori dalle cuffie per martellarti le orecchie. È tutto edificante, confortante, positivo. È persino sfiancante il costante richiamo all’auto accettazione, ad amare sé stessi, a mettere il passato alle spalle e accogliere il futuro con entusiasmo. Si canta di amore e salvezza, di sopravvivere un giorno in più e stringersi al prossimo perché «non siamo che granelli di sabbia». Quasi mai lo si fa con l’originalità che ci si aspetta da una come Sia. Non c’è spazio per le sottigliezze. L’overdose di euforia rende alcuni passaggi di Music la versione parossistica e pre adolescenziale del concetto di empowerment che ha monopolizzato il pop negli ultimi anni.

Da quando è esplosa otto anni fa con Chandelier, uno dei singoli pop degli anni ’10 che resteranno, e s’è messa alle spalle un periodo cupo culminato coi pensieri suicidi del 2010, Sia Furler ha concepito la sua attività musicale come un’attrice che interpreta un ruolo ogni volta differente. Sembra sempre uguale a sé stessa, giacché si nasconde dietro a enormi parrucche o manda avanti il suo alter ego Maddie Ziegler che sta invecchiando in pubblico al posto suo. E invece la sua musica ha spesso a che fare con la rinegoziazione dell’identità. Ha raccolto le canzoni scritte per altri e poi scartate in un disco titolato significativamente This Is Acting. S’è calata nei panni della sciamana freak nel trio LSD formato con Diplo e Labrinth. Ha cercato d’inventare standard natalizi per il XXI secolo. Ha scritto una sfilza di quelle che gli anglofoni chiamano feelgood songs, canzoni fatte apposta per farti stare bene e tirarti su. E anche in Music canta con una carica tipica di chi ha la metà dei suoi anni, facendosi aiutare da co-autori, produttori e musicisti come Jack Antonoff, Greg Kurstin, Jesse Shatkin, David Guetta, Labrinth, Burna Boy, Dua Lipa. Raramente però riesce a replicare l’intensità dei suoi pezzi migliori.

Succede, eccome se succede, ad esempio nel pezzo che dà il titolo all’album. Per cinque minuti ci si mette alle spalle gli arrangiamenti da mini club per galleggiare in uno spazio disegnato da Labrinth e dal compositore Oliver Krauss, una miscela di suoni orchestrali ed elettronici che reggono un testo che gioca sul significato della parola Music: musica, ovvio, ma anche il nome della protagonista del film. Sia resta una fuoriclasse e per rendersene conto basta ascoltare la notevole Beautiful Things Can Happen, un pezzo dell’altro mondo con l’arrangiamento di Gustave Rudman Rambali (Euphoria). Ecco, quando tenta cose strane, come la base fluttuante di Oblivion o l’arrangiamento vocale di Miracle, Sia dimostra una volta ancora il suo livello di cantante e autrice. Ma il bombardamento sonoro, certi ritmi standardizzati, i suoni poco originali, alcune melodie già orecchiate, i testi a volte banali fanno di Music un’esperienza a tratti frustrante, come del resto è più volte avvenuto negli ultimi anni ascoltando Sia. Non sempre la sua produzione è all’altezza della sua fama. «Se ho successo è perché sono produttiva, non perché sono una buona songwriter», ha detto tempo fa. Non era vero. Rischia di diventarlo.

A leggere i pareri relativi alla colonna sonora di Music si direbbe difficile ascoltare l’album prescindendo dalla controversia che riguarda il film. Riassunta in breve: Sia ha affidato la parte della ragazza autistica a Ziegler, che è un’attrice neurotipica, una scelta inaccettabile per gli standard del 2021. La due nomination ai Golden Globe hanno nuovamente infiammato la polemica. In certi profili Twitter, Sia è una paria (e non è nemmeno la prima volta). Nel sito Album of the Year, che aggrega i giudizi della critica e degli utenti, Music ha uno user score pari a 32 su 100 che ne fa uno degli album peggiori dell’anno, in questo momento 94esimo su 95. Se il disco del 2014 1000 Forms of Fear era stato il trionfo di Sia, quello in cui la cantante s’è trasformata da vittima a regina delle canzoni motivazionali, Music potrebbe essere quello in cui si trasforma in bersaglio facile.

In un mondo di star che si sforzano per fare la cosa giusta, Sia è diventata la J. K. Rowling del pop. Sono entrambe outsider che hanno scombussolato il mainstream superati i 30 anni d’età, dando speranza a chi non ce l’ha fatta a sfondare quand’era il momento di farlo. Sia ci ha detto: puoi avere successo anche a 39 anni e puoi ottenerlo seguendo le regole che ti sei data. A certo punto, lei e Rowling hanno visto la vita social andare a rotoli, o comunque incattivirsi parecchio, una accusata di abilismo, l’altra di transfobia. Solo che la scrittrice ribatte con fermezza, la cantante cerca di limitare i danni. A un’attrice autistica che le faceva notare che lei e altre sue colleghe avrebbero potuto interpretere il ruolo di Music, ma non sono state chiamate, Sia ha risposto «forse non sei una brava attrice». S’è poi pentita, ha promesso di editare il film e di prestare ascolto alle critiche. A inizio febbraio ha fatto una cosa saggia: ha eliminato del tutto il proprio account Twitter dove il dibattito era più acceso. Su Instagram, dove definisce il film «una lettera d’amore a chiunque senta di non aver voce», i commenti sono stati disabilitati. Nell’ultimo post c’è un cagnolino: quello piace a tutti.

Due mesi fa l’americano Ryan Adams ha pubblicato un album meraviglioso di classico cantautorato intitolato Wednesdays. Azzardo: se fosse stato pubblicato poco più di due anni fa, il disco sarebbe stato accolto enfaticamente come un piccolo Blood on the Tracks. E invece nessun grande media americano l’ha recensito. Difficile pensare che sia per un motivo diverso da questo: in un celebre articolo del New York Times del febbraio 2019 Adams è stato descritto come un manipolatore sessuomane, praticamente il prototipo del maschio tossico. L’idea di recensire un suo disco può risultare stomachevole o anche solo sconveniente. Sia non farà la stessa fine, è una popstar troppo grossa da ignorare e poi la conversazione sull’abilismo non ha occupato i media quando quella derivante dal #MeToo, ma occhio e croce era dai tempi dell’adattamento di Cats che un film non incassava recensioni tanto negative. Immagino che anche la colonna sonora sarà presto dimenticata. E non per le polemiche, ma per la musica.

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