Giorgio Poi, ‘Erica cuore ad elica’ è un distillato di classicità italiana | Rolling Stone Italia
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‘Erica cuore ad elica’ di Giorgio Poi è un distillato di classicità italiana

Il cantautore impara da molti senza copiare nessuno. E la sua nuova canzone «parla dei misteri delle altre persone che assumono ai nostri occhi connotati magici»

Non accade più molto spesso – ma noi speriamo che succeda sempre – che arrivi a un certo punto della storia di un giovane autore il vero pezzo della svolta, la sintesi di una poetica, il brano capace di tenere insieme le tensioni di un’importante scrittura musicale e, come la forma canzone domanda e impone, di un testo che rappresenti da solo l’intero mondo, l’intero sguardo e lo slancio preciso proprio di quell’autore.

Da oggi a mezzanotte, per Giorgio Poi è arrivata questa svolta, che arriva a otto mesi di distanza dalla sua ultima prova lunga, l’album Smog uscito per Bomba Dischi alle porte della scorsa primavera. La canzone si intitola Erica cuore ad elica ed è non solo il brano più interessante, riuscito, a fuoco della giovane carriera artistica di Poi, ma anche e soprattutto un pezzo capace di lasciare l’intero mondo dell’ultimissima leva di cantautorato italiano almeno un passo – deciso – dietro di sé.

Scritta, prodotta e suonata da Poi, Erica cuore ad elica si apre con violini e chitarra ed è un sorprendente incontro di classicità italiana in forma di ballata e, come nell’ormai precisa cifra stilistica di quest’autore, di una collezione di fondali e immaginario, anche loro italiani, che si rincorrono e che qui, di verso in verso, costruiscono l’album fotografico di una donna e di un amore. Sì, perché questa uscita questa notte è soprattutto una grande canzone d’amore come, da queste parti, non ne sentivamo da parecchio: una love song misuratissima, tutta incentrata su una questione della relazione emotiva con l’altro e con la sua diversità.

Ci ha raccontato Giorgio: «al centro della canzone ci sono i misteri altrui, cioè quelle caratteristiche delle altre persone che noi non possediamo, e che assumono ai nostri occhi connotati magici». E in questo pezzo, dunque, la magia è centrale, laddove i violini dell’inizio finiscono a sciogliersi nel sax suonato da Carlo Conti che chiude il brano e che per istinto richiama subito alla mente la coda di Modena di Antonello Venditti – che qui ritorna nella verticalità di un brano che pure sembra nella propria eco dovere qualcosa di grosso a un’intera schiera di mostri sacri della nostra canzone. La forza di Giorgio Poi, tuttavia, è tutta in due elementi, qui portati davvero a fiorire: una scrittura compatta, che pur distesa nelle immagini del testo ha una struttura narrativa rara di questi tempi e un’unicità stilistica sbalorditiva, che pare proprio imparare da molti senza replicare mai nessuno.

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