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Burial, il fantasma dei rave passati

Con il nuovo disco ‘Tunes, 2011 to 2019’, il misterioso producer di casa Hyperdub riscrive la propria storia, rispecchiando il decennio che sta per concludersi e il presente smarrito in cui stiamo vivendo

Burial, il fantasma dei rave passati

«La musica di Burial è un vivido ritratto sonoro di una South London ferita, un dipinto semi astratto della delusione e delle angosce di una città», scriveva Mark Fisher in un articolo pubblicato nel 2007 sulla rivista The Wire. Era l’alba della più importante crisi economica nella storia contemporanea, e l’autore di Realismo capitalista intravedeva nei primi due album di Burial – l’esordio omonimo del 2006 e Untrue del 2007 – la chiave per leggere quello che sarebbe stato il futuro prossimo della Gran Bretagna.

Nei samples presi da videogiochi dimenticati, nello scricchiolio del vinile, nei vocal con cui venivano distorte le reginette del pop, nella produzione DIY, nel grido di aiuto nascosto dentro Distant Lights o Arcangel, Fisher individuava i tratti di un presente smarrito, da cui non poteva che nascere un fantasma. Secondo Fisher, infatti, la musica di Burial racchiudeva in sé i tratti distintivi di un’epoca incapace di emanciparsi dal proprio passato e per questo intrappolata dentro una nostalgia ossessionante, nostalgia che rendeva impossibili le fondamenta per un futuro che fosse realmente tale e non la riproposizione decontestualizzata di ciò che è stato, un fantasma appunto. Sono passati più di dieci anni, le parole di Fisher hanno superato i confini della capitale inglese, e il ritratto concepito a inizio millennio da Burial si è tramutato in un’inquietante traduzione del decennio che sta per concludersi.

Infatti, guardando il presente – ovvero il fantasma immaginato nel 2007 da Fisher – la stagnazione economica è stata normalizzata e il processo tecnologico non ha fatto il salto che ci si immaginava a inizio millennio. Certamente, oggi possiamo tutti connetterci a internet dal telefono, ma la massificazione tecnologica è poca cosa rispetto a un progresso concreto – basta pensare alla ricerca nel campo dell’energia pulita, ancora impotente di fronte all’utilizzo di carburante fossile. La mancanza di investimenti e di posti di lavoro, il conseguente ricambio generazionale mancato e l’inevitabile smarrimento davanti a ciò che verrà hanno cementificato i confini di un decennio statico, necessariamente rivolto verso il proprio passato per cavarne un possibile futuro. Dal ritorno delle sneakers 90s fino al ritrovato amore per il synth pop o l’autotune, in Italia Vasco Rossi e Jovanotti dominano la classifica del decennio e la politica mondiale torna a strizzare l’occhio al nazionalismo. In sintesi, il presente in cui viviamo ricorda un bambino impaurito, che per illuminare il buio davanti cerca a casaccio frammenti dalla strada già percorsa. Tuttavia, costruire il futuro riciclando spezzoni dal passato significa dar vita a un tempo senza tempo, un fantasma.

Massimo testimone dello smarrimento è quindi la cultura, anch’essa stagnante nel loop del già visto e pressoché appiattita dentro il suo principale metodo di fruizione, lo smartphone. Il bombardamento digitale e le fake news, il giornalismo clickbait, campagne elettorali trasformate in meme, con Instagram siamo tutti fotografi e una banana incollata a una parete diventa una story perfetta da miliardi di condivisioni. E ancora, la massificazione tecnologica di cui sopra con gli stessi identici suoni digitali in migliaia e migliaia di brani, dove la qualità sonora è sepolta nel formato audio compresso, perché tanto è meglio se sembra già sentito, è più orecchiabile e finisce nella playlist giusta.

Nella musica, infatti – e in particolare nell’elettronica, quella che a rigor di logica dovrebbe essere più d’avanguardia, poiché essenzialmente legata alla tecnologia e al suo sviluppo –, lo scenario è disarmante. Da una parte i grandi festival EDM che hanno azzoppato la dance di tutta la rilevanza sociale e politica da cui era nata, tra Detroit e Berlino, città in cui il clubbing, ormai, è un fenomeno da Lonely Planet. Dall’altro lato, invece, davanti alla omogeneizzazione dell’elettronica nel drop da mani al cielo, troviamo una fuga verso epoche o luoghi lontani: il ritorno delle sonorità disco, l’abuso di sample di musica africana, la ripresa delle ritmiche footstep, dei glitch IDM, delle Roland 808, delle fantasie vaporwave e via dicendo.

Burial tutto questo ce lo pone davanti, nella maniera più spietata possibile. In una delle sue rarissime interviste  rilasciate ai tempi di Untrue, Burial spiegava: «Questa parola sembra il titolo di un vecchio pezzo UK garage, ma è riferito anche al momento in cui qualcuno finge di essere chi non è. Parla del sentirsi fuori posto, del sentire che c’è qualcosa che non va, che una strana atmosfera è entrata nella stanza». In queste poche frasi è riassunta tutta l’estetica di Burial, costruita su ricordi di serate raccontate dal fratello maggiore e su una nostalgia inguaribile, perché diretta verso momenti che non ha mai vissuto – «Mio fratello maggiore amava la musica rave, la jungle, lui ha davvero vissuto quella roba […] Io non sono mai stato a un festival, né a un rave, né in un warehouse party illegale, ne ho solo sentito parlare e l’ho sognato», ha raccontato a Mark Fisher.

Dentro questo sogno a ritroso Burial ha costruito tutta la sua musica. Attimi rubati da un passato non suo, attimi distorti e dislocati, una linea che attraversa tutti i sottogeneri e le subculture di una scena scomparsa, senza mai trovare il proprio posto. Quella di Burial è una musica utopica, perché non ha luogo, musica atemporale perché, raccogliendo frammenti di un sogno, finisce per non avere epoca, vagando nel presente come un fantasma, appunto.

Ulteriore testimonianza dell’eterno ritorno messo in musica da Burial è Tunes, 2011 to 2019, una raccolta che racchiude la quasi totalità dei suoi EP usciti negli ultimi otto anni, pubblicata negli scorsi giorni per celebrare il quindicesimo anniversario della sua etichetta d’appartenenza, Hyperdub. “Speriamo che questa collezione risulti familiare e allo stesso tempo non familiare”, scrivono dalla label fondata da Kode9 nel comunicato del disco, che infatti si presenta come un insieme di brani già pubblicati, ma riordinati dallo stesso Burial secondo una nuova trama, senza considerare l’ordine cronologico delle uscite. Di nuovo, Burial estrae tasselli dal passato per riscrivere il mosaico, e il risultato questa volta è ancora più oscuro. Il passato viene immaginato ancora una volta, nuovamente decontestualizzato dentro una storia che non è mai stata, anch’essa privata di una sua fondazione temporale.

Tunes, 2011 to 2019 inizia, infatti, da quella che dovrebbe essere la fine, con State Forest uscita a luglio, e si chiude con NYC, originariamente pubblicata nel 2011, anno da cui la raccolta dovrebbe partire. Il continuo inseguirsi del tempo è chiaro fin da subito, in un circolo informe dove gli anni si confondono dentro le miriadi di influenze sonore. L’entrata è affidata all’ambient abissale di tre tracce lunghissime – oltre a State Forest, Beachfires e Subtemple – per ventisei minuti claustrofobici, senza il minimo accenno di batteria che possa scandire il tempo che passa, ma soltanto il ticchettio di un orologio a interrompere la privazione sensoriale cercata nei primi due brani. Si procede dentro un rave che non esplode mai. Il fantasma messo in musica da Burial si mostra e si nasconde, raccontato dai campioni vocali come un canto di sirene invisibili: “I’ll always be there for you” (Young Death), “Come with me” (Nightmarket), “I will always protect you” (Hiders) fino all’epica di Come Down To Us, “Excuse me I’m lost”.

In quello che è uno dei suoi brani più imponenti, Burial abbozza un viaggio attraverso una dimensione insondabile, dove il senso di smarrimento si ribalta nella luce improvvisa, in cui le lacrime e la solitudine della voce narrante (“I’m tied, down, in the dark, in my mind”) vengono asciugate: “You are a star, to me, angel, you are a world […] Sorry I ran away, just to be only with you / You are a star, there’s no one quite like you”. La traccia si chiude, tuttavia, nuovamente nell’ombra, da cui emerge improvvisa la voce di Lana Wachowski, con il discorso pronunciato durante lo Human Rights Campaign gala del 2012, quando la regista parlò del dolore provato nel percorso di autaccettazione verso la sua identità di transgender – “I began to believe voices in my head, that I was a freak, that I am broken, that there is something wrong with me, that I will never be lovable”.

Infatti, se la dance music significa sostanzialmente abbandonarsi al suono, la musica di Burial parla del sentirsi abbandonati. Tutta la produzione del londinese gravita attorno a un senso di perdita dilaniante, impossibile da non cogliere proprio nei sample vocali messi da Burial in tutti i suoi brani, anche in quelli apparentemente meno ‘emotivi’ – l’amore non corrisposto dentro la furia 2-step di Rival Dealer ne è un esempio emblematico. I personaggi nelle canzoni sono tutti alla ricerca di qualcosa, impossibile da raggiungere perché sepolta tra frammenti del passato senza tempo messo in scena da Burial, nella musica che lui stesso ha definito come una presenza-non-presenza: «A volte ti senti come se un fantasma toccasse il tuo cuore, come se qualcosa camminasse accanto a te», raccontava a Fisher.

L’impatto di Burial, e in particolare di Untrue, è stato uno tra i più rilevanti nella musica contemporanea, ancora più decisivo perché rivolto anche oltre i confini della dance music – cosa ad esempio non accaduta nemmeno con Aphex Twin, nonostante la mitologia che ha seguito la carriera di RDJ. Da James Blake agli xx, da Andy Stott a Skrillex, da Thom Yorke a Four Tet e, più in generale, in tutta la ripresa delle tematiche garage e 2-step che hanno invaso la musica intera dalla fine degli anni ’10 in poi, l’impronta lasciata da Untrue non ha risparmiato nessuno. Burial, proponendo il suo fantasma di attimi rubati al passato, ha informato un intero decennio – elettronico e non – ed è interessante come uno degli innovatori più considerati nella storia recente della musica abbia definito la propria idea grazie a istanti sottratti da un’epoca svanita come quella dei rave, riportandone in vita una maschera spettrale. Con la sua musica, Burial è stato tra i primi a rispecchiare l’epoca nostalgica in cui viviamo, anticipandone le tendenze dentro la solitudine sospesa di tutte le sue canzoni e di tutti i suoi personaggi, in bilico tra la fine della notte e i primi bagliori del tramonto, rivolti verso l’eco di un rave mentre il nuovo giorno sembra non arrivare mai. ‘The afterglow’, per usare le parole con cui lo stesso Burial descriveva il suo legame con la scena cui la sua musica si riferiva.

Proprio negli anni in cui la curiosità della stampa inglese rasentava la morbosità, tesa a scoprire la vera identità del produttore nascosto dietro la maschera di Untrue, Burial si rivelò con una foto e un nome, William Bevan. Tanto doveva bastare per chi, seguendo la narrazione della rave culture – dove i dj e gli artisti rimanevano nell’ombra delle loro produzioni – avrebbe preferito rimanere nell’anonimato più completo. Dopo Untrue, infatti, Burial è tornato nel silenzio, pubblicando saltuariamente qualche EP, senza mai rilasciare interviste, figurarsi apparizioni. Il decennio di Burial è trascorso nell’oscurità, dove il producer ha coltivato la propria estetica arricchendola di nuove influenze e nuovi momenti rubati dai warehouse ormai abbandonati: Tunes, 2011 to 2019 ha squarciato improvvisamente il sipario, ripresentando sul palco una figura già vista ma allo stesso tempo inedita, un fantasma che torna riproponendo la propria storia cambiandone il tempo, prima di tornare tra i bus notturni e i McDonald’s di South London.

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