Tutto quello che non funziona in ‘Enola Holmes’ | Rolling Stone Italia
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Tutto quello che non funziona in ‘Enola Holmes’

Dalla caratterizzazione del fratello Sherlock alle citazioni in stile ‘Wonder Woman’, fino all’immancabile lezioncina femminista: le cose ‘sbagliate’ nel film Netflix starring Millie Bobby Brown

Tutto quello che non funziona in ‘Enola Holmes’

Millie Bobby Brown in ‘Enola Holmes’

Foto: Netflix

Sì, lo sappiamo: Enola Holmes, il film sulla sorellina di Sherlock interpretata da Millie Bobby Brown appena arrivato su Netflix, è un’avventura per teenager. Sì, lo sappiamo: è un prodotto di puro intrattenimento di fronte al quale è inutile fare le recensioni da critici duri-e-puri. Infatti non le faremo. Ma, visto che le ambizioni sono alte (dal regista Harry Bradbeer, che si è formato con Fleabag, al supercast), ci permettiamo questa piccola indagine (pardon) tra le note più stonate. Perché si poteva fare di più: elementare, Enola!

La protagonista che si rivolge alla macchina da presa

Ormai è tempo: chiediamo ufficialmente una moratoria internazionale al tribunale dei crimini contro l’umanità per i protagonisti dei film e delle serie che si rivolgono direttamente allo spettatore guardando nella macchina da presa. Occhieggiando (letteralmente) al “suo” Fleabag, il regista Harry Bradbeer fa sfondare a Enola la famigerata quarta parete. Ma Millie Bobby Brown, di certo cresciuta (in tutti i sensi) dai tempi di Stranger Things, non è Phoebe Waller-Bridge. Né l’innominabile Kevin Spacey di House of Cards: a questo punto potete ridarci il suo Frank Underwood, se proprio volete che gli attori ci parlino occhi negli occhi?

La lezioncina femminista

Enola Holmes è un po’ Nancy Drew e un po’ Duck Tales (detto per quelli – non troppo giovani – che afferrano al volo i riferimenti novecenteschi). Ma è anche, come si conviene oggi, una storia per e con bambine ribelli. Il messaggio femminista, veicolato alle platee teen, va benissimo: ammettiamo che però è troppo semplice. E, cosa che spesso avviene di questi tempi, all’acqua di rose. Per non dire un po’ trito: tra suffragette, lottatrici (ovviamente black) e solita idiosincrasia per i corsetti, è tutto già visto. «Il futuro è nostro!», si sente dire alla fine: speriamo verso copioni un po’ più complessi.

La caratterizzazione di Sherlock Holmes

Henry Cavill è Sherlock Holmes. Foto: Netflix

Alzi la mano chi avrebbe mai ingaggiato Henry Cavill nei panni di Sherlock Holmes. Nessuno? Ecco, manco noi. Nonostante la sempre clamorosa figaggine dell’Uomo d’Acciaio e quei riccioli che provano ad avvicinarsi all’idea comune del personaggio, sulla caratterizzazione del padre del forensic crime-solving proprio non ci siamo. Ma, prima ancora che per la scelta di casting (ci ritorneremo), qui si parla di scrittura. Nell’idea di Conan Doyle il detective più geniale ma meno empatico del mondo mai e poi mai si sarebbe curato degli altri, men che meno avrebbe legato con la sorellina che gli ha appioppato a metà anni Duemila la scrittrice Nancy Springer nei suoi romanzi. E che (sacrilegio!) è pure brava come lui nel lavoro investigativo. Inoltre Holmes si faceva di cocaina e morfina: in che universo le spalle da quarterback di mister Cavill potrebbero essere scambiate per quelle di un tossico? Meglio lasciare il lavoro sporco alla performance eccentrica e imprevedibile di Robert Downey Jr. e a quella rivoluzionaria e narcisa di Benedict Cumberbatch.

L’assemblaggio del cast

Dicevamo che pare un po’ strano vedere quel gran pezzo di figliolo di Superman indossare i panni di Holmes, ma pure per il resto del casting le cose non vanno proprio liscissime. A parte Millie Bobby Brown, per la quale chiaramente tutta questa operazione young adult (costosa e fin troppo ambiziosa) è stata messa in piedi, c’è anche Sam Claflin, che interpreta il fratello maggiore Mycroft Holmes: nel canone il personaggio è un funzionario del governo britannico e sarebbe un detective anche migliore di Sherlock, se non fosse tanto indolente e pigro. Qui più che altro è il tutore freddo, prepotente e un po’ manipolatore di Enola, il simbolo della società patriarcale che la vorrebbe come tutte le altre coetanee e, soprattutto, fuori dalle scatole. Bisogna riconoscere che “Mister Fossette” non se la cava male, nonostante i baffoni. Discorso a parte poi per Helena Bonham Carter, ovvero mamma Holmes, che praticamente a inizio film sparisce, abbandonando apparentemente la figlia e mettendo in moto la trama. Ecco, Helena è probabilmente l’unica che ha capito davvero l’operazione: una manciata di pose, prendi i soldi e scappa.

Il training alla Wonder Woman

Millie Bobby Brown/Enola Holmes si allena con l’arco. Foto: Netflix

Enola Holmes meets Wonder Woman. Nella prima parte del film c’è l’immancabile montaggino sull’educazione della nostra protagonista. Non quella sentimentale, ohibò, ma il training da amazzone che (indovinate) fa parte della lezioncina femminista di cui sopra. «Non sono una signorina, ma so decifrare qualunque messaggio meglio di mio fratello Sherlock e posso pure salvarti la vita». Oppure: «Mamma non mi ha insegnato a ricamare, ma faccio jiu-jitsu e posso spaccarti la faccia». Con la freccia in saccoccia.

La durata

123 minuti: sul serio? Ebbene sì. Sarà che il regista viene dalle serie (la citata Fleabag, ma pure Killing Eve), ma sembra abituato a non voler/dover tralasciare nessun dettaglio della narrazione, anche a costo di allungare il brodo. Risultato: quello che avrebbe potuto essere uno spedito film di un’ora e mezza diventa un polpettone inutilmente prolisso. Che ammazza il bel ritmo dell’incipit: quando arrivano le sparatorie e i duelli, tu sei lì che guardi l’orologio. In ogni caso, seguiranno altri “episodi”: ne siamo certi. Confidiamo nei montatori futuri.