Storia ‘diversa’ del cinema: Il grande spot – Parte I | Rolling Stone Italia
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Storia ‘diversa’ del cinema: Il grande spot – Parte I

Da sempre film e pubblicità sono strettamente legati. Da grandi testimonial come Marlon Brando a ‘product placement’ come Tiffany con Audrey Hepburn, fino ai dalmata Disney che hanno influenzato il marketing. Un excursus

Storia ‘diversa’ del cinema: Il grande spot – Parte I

L’anteprima parigina della ‘Carica dei 101’ nel 1961

Foto: Keystone France/Gamma-Rapho via Getty Images

È notorio: la parentela fra cinema e pubblicità è strettissima. Procede su due versanti: quello cosiddetto subliminale (neppure tanto) di un divo che nel film promuove un prodotto e quello dello spot diretto dove il divo è testimonial di un prodotto. La tradizione, la piccola leggenda del marketing (si parla soprattutto di cinema americano), rimandano alcune icone lontane che dettarono esempi e mode. Alcuni dei grandi segnali, classici: la giacca bianca di Bogart; le pellicce di visone di Rita Hayworth; il “chiodo” di Marlon Brando; i jeans di James Dean; le spalline degli abiti da sera di Marilyn; i cashmere indossati da Sandra Dee in Scandalo al sole; i “tubini” di Audrey Hepburn; la Aston Martin di Connery-Bond. E poi, salendo al nostro tempo, estraendo davvero a caso dal mucchio: le scarpe di Manolo Blahnik di Sarah Jessica Parker in Sex and the City; i foulard di Hermès di Meryl Streep nel Diavolo veste Prada; Daniel Craig dell’inesauribile pozzo-marketing di James Bond, vestito dal designer-stilista Tom Ford.

Sul versante spot, dunque pubblicità diretta, i divi… ci sono praticamente tutti: monarchi, principi e poi… a scendere. Da Marlon Brando, immenso su quella roccia del Grand Canyon nello strepitoso spot Telecom, a Paul Newman con la Barilla e tutti gli altri: Costner, Ford, DiCaprio, Pitt, e poi Theron, Hayek, Johansson, Bellucci. Ma davvero siamo alla punta dell’iceberg. Altri esempi, recenti, sono lo spot della Peugeot, dove una macchina si alza in piedi, assume le forme di robot e si mette a ballare con movimenti sexy del bacino. Lo spot è solo l’ennesima memoria cinematografica, una delle molte riproposte dei film di Robocop. Infine, la birra Heineken. Che nel suo spot si vale del mostro che raccoglie le bottiglie e se le porta nella sua tana. È un replicante famosissimo, il “mostro della laguna nera”, un vero archetipo hollywoodiano che risale al 1954. Ho citato queste rappresentazioni perché valgono in chiave di rivisitazione postmoderna. Come a dire: anche oggi, se ti serve qualcosa di efficace devi… guardare indietro.

Telecom Italia - Come vorresti che fosse il futuro? - Marlon Brando

La voce
Lo spot da cinema nacque da una voce, quando nel 1971 all’ufficio marketing della Kraft viene l’idea di usare come speaker Gualtiero De Angelis, il doppiatore che dava la voce a Cary Grant, James Stewart e Erroll Flynn. “Kraft, cose buone dal mondo”. Se un suono che apparteneva a modelli tanto prestigiosi e accreditati, leggendari, assunti dalla memoria profonda ti indicava un prodotto da comprare, correvi a comprarlo. Grant era il seduttore elegante, l’uomo più affascinante dello schermo; Stewart era l’uomo onesto che si batte per le giuste cause; Flynn era semplicemente il sogno e l’avventura. Insieme coprivano la summa delle suggestioni e dei sentimenti, e compivano azioni eroiche e lo facevano per noi che non eravamo eroi. Quella voce, quel suono, erano irresistibili. Assecondando l’input dei tre grandi identificatori, l’utente si sentiva in buone mani. Si fidava del testimone e del prodotto. Allora c’era ancora Carosello, significa che i prodotti privilegiati erano pochissimi, dunque il giorno dopo avevi la misura della redemption. Kraft spariva dai bancali.

Prodotti
Si è parlato di cinema e di prodotti. Il quesito è: il cinema può andare oltre? Può dettarti coscienza e cultura oppure si ferma al primo strato dei sentimenti e dell’estetica? Ti fa comprare un prodotto o può anche condizionarti quando devi dare la tua preferenza nella cabina elettorale. O può persino farti fare la rivoluzione. Un capitolo intermedio può chiamarsi “L’amico dell’uomo”. Il cane non può essere considerato puro prodotto, il suo acquisto implica coinvolgimenti maggiori, entra in gioco il sentimento. E quel sentimento era perfetto per essere guidato dal cinema. Negli anni Venti il cinema, ancora muto, propose Rin Tin Tin, con enorme successo. Tutto il mondo si innamorò del cane lupo. Divenne il compagno di gran parte delle famiglie che ospitavano un cane. Forse quella razza era appropriata per quella stagione: forza e sicurezza, attività, un compagno per costruire, e naturalmente fedeltà. Il “lupo” divenne il modello esclusivo: pensavi a un cane, prefiguravi un lupo.

La carica dei 101 - pongo e rudy incontrano anita e peggy per la prima volta

Nel dopoguerra venne il collie, più affettuoso, esteticamente più gentile, seppure forte, pastore e multicolore. Nella coscienza collettiva Lassie (rappresentato da tanti film e serial) rimosse il modello “lupo”. Più tardi altra evoluzione, razza più domestica e passiva, da tenere in braccio, il cocker, con Lilli e il vagabondo, anni Cinquanta. Altra sostituzione di modello. Successivamente fu la volta del dalmata (La carica dei 101), un cane quasi virtuale, bianco con macchie nere: un disegno. Erano gli anni Sessanta. Non basta dire “era la moda”, era molto di più, la memoria, e la coscienza, appunto. E certamente alla base non c’era il caso o l’intuizione, c’era un marketing preciso che aveva progettato quei modelli. E c’era l’efficacia, la forza estetica di quel cinema, capace di imporli. Naturalmente, di riflesso, i cani della pubblicità erano quelli del cinema. Il dalmata è un riferimento interessante, un carattere cinematografico esemplare, per seduzione estetica-sentimentale e… fine della suggestione. Quel cane era la conferma dell’attitudine del cinema che ispirava un sentimento immediato ma non duraturo. Per il dalmata ti prendevi una cotta, che poi passava. Il meccanismo ebbe risvolti tristi, perché nei mesi estivi le strade si riempirono di cani maculati abbandonati dai padroni che se ne andavano in vacanza. Ci fu anche uno spot in quel senso, che scoraggiava dall’acquistare quella razza.

La pubblicità come arte
Cinema, pubblicità. E poi arte come terzo lato del triangolo. Fa testo Andy Warhol, l’artista che più di tutti ha intuito il sincretismo cinema-arte-prodotto. L’intervento di una personalità prestigiosa come Warhol, uno dei pochi che non hanno solo cercato, ma trovato, vale per un’ulteriore legittimazione del cinema. E vale per la successiva legittimazione dei grandi modelli e prodotti citati sopra. Warhol lavorò sulle immagini di Monroe, Presley, Dean e Brando, quattro icone della rivoluzione giovanile della metà del ‘900, ne rifece il restyling, ne confermò e ne rafforzò il segno e l’eredità. Nei suoi multipli inserì colori innaturali, inventò una grafica che si colloca come precedente che fa testo, “necessario e sufficiente”, di comunicazione e arte, e naturalmente come precedente di consumo, subito adottato dalla pubblicità. In chiave diversa lo stesso Warhol precorse i tempi applicando decisamente – vogliamo dire “volgarmente”? – e con genialità l’arte al prodotto. Un esempio: una sua pittura acrilica del 1968 che si intitola Scatola di minestra di pomodoro Campbell’s, che riproduce quella scatola, cambiandone solo i colori. E poi la Coca-Cola e il detersivo Brillo. Arte e pubblicità applicata, tutto diretto, senza mediazioni. Warhol: da Marilyn e Elvis alla Coca-Cola. Arte figurativa, musica, prodotto. E naturalmente cinema: globalizzazione virtuosa.

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