‘Drive My Car’, Hamaguchi Ryūsuke e i film della nostra giovinezza che non torneranno più | Rolling Stone Italia
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‘Drive My Car’, Hamaguchi Ryūsuke e i film della nostra giovinezza che non torneranno più

Dopo ‘Il gioco del destino e della fantasia’, Orso d’argento a Berlino, torna in sala il capolavoro premiato a Cannes. Recensione esperienziale (sorry) di un autore portentoso. Che ci riporta ai film di quand’eravamo ragazzi. E a quell’11 settembre…

‘Drive My Car’, Hamaguchi Ryūsuke e i film della nostra giovinezza che non torneranno più

Hidetoshi Nishijima and Tōko Miura in ‘Drive My Car’ di Hamaguchi Ryūsuke

Foto: Tucker Film

Spero sempre mi si domandi “dov’eri l’11 settembre?” perché ho una risposta a prova di professoressa democratica: a vedere Yi Yi, sottotitolo italiano E uno… e due…, sommo capolavoro del taiwanese Edward Yang morto troppo presto, durata 172 minuti. Erano gli anni del liceo in cui, suonata l’ultima campanella, andavo prima da McDonald’s e poi m’infilavo dentro i cinemini di Milano ancora detti d’essai a vedere De Oliveira e Iosseliani, i Dardenne e Tsai Ming-liang.

Dunque era l’11 settembre, quell’11 settembre, Yi Yi cominciò alle tre, il primo aereo contro la prima torre che ore erano, le tre e mezza?, non ricordo. Comunque nelle sale punitive di qualità (in quel caso, il Palestrina) già non c’era l’intervallo, che fa cafone, perciò uscii estasiato dal film alle sei, presi la metropolitana, vidi che c’era un gran vocìo, una grande agitazione, ma sul Nokia 3310 mica avevi le bacheche e le stories, e i miei manco un messaggino mi avevano mandato. Il resto lo sapete.

Vedendo Drive My Car di Hamaguchi Ryūsuke, sempre tre ore (179 minuti, per la precisione) però giapponesi, mi chiedevo se oggi potrebbe succedere la stessa cosa; se si potrebbe mai realizzare la stessa situazione – senza crollo torri e senza McDonald’s, oggi il me diciottenne ordinerebbe un sanissimo poke (ma figuriamoci).

E mi sono risposto che no, i film della nostra giovinezza non torneranno più, e nemmeno quel modo d’intendere e scoprire i titoli da festival, gli autori esotici, le uscite che sui Ciak di una volta avevano una schedina piccola piccola e su Duel la copertina (sarà ancora così?). Mi son risposto che no, che forse il me di oggi correrebbe a casa a vedere, nello stesso tempo, una miniserie intera, perché oggi così va il mondo – e il greco lo ripasserà comunque la mattina dopo prima di scuola, esattamente come vent’anni fa.

O forse ci andrebbe di corsa, a vedere Hamaguchi, che pure oggi avrebbe (ha?) tutte le copertine dei giornali cinefili un po’ pipparoli, gli stessi che collezionavo io. Ci sono pochi registi che possono vantare due uscite così grosse in una sola annata: l’altro, quest’anno, è Ridley Scott coi colossi pop The Last Duel e House of Gucci (a ottantatré anni: respect). Hamaguchi è – ora i critici inorridiranno – il Ridley più giovane e per cinefili e con tutti i premietti giusti. Con Drive My Car ha vinto quello per la sceneggiatura all’ultimo Cannes, col di poco precedente Il gioco del destino e della fantasia (uscito nelle sale a fine agosto, forse da qualche parte ancora si trova) l’Orso d’argento a Berlino.

‘Il gioco del destino e della fantasia’. Foto: Tucker Film

Sono due film belli e gemelli, che sfidano entrambi la forma narrativa più difficile: il racconto. E vincono. Il gioco del destino e della fantasia è fatto di tre storie manco intrecciate fra loro, tre racconti morali ma leggerissimi un po’ alla maniera di Rohmer, presi da tre scritti dello stesso regista. Sono molto lievi, ironici, pure erotici, commoventi. Drive My Car è invece una storia singola e lunghissima tratta da Murakami Haruki, e perciò con dentro tutta la sua mistica quasi esoterica, la sua introspezione dolente, i suoi silenzi New Age – esiste ancora la New Age o è passata di moda come l’inarrivabile Crispy McBacon?

Ma, come faceva nel film girato un attimo prima, Hamaguchi sa mantenere sempre tutto molto terreno: anche in Drive My Car ci sono il sesso, i viaggi, gli incontri, le cene, i fatti piccoli e grandi della vita e pure il teatro (lo Zio Vanja di Čechov) che è specchio della vita stessa, cosa già ampiamente vista ma detta bene anche stavolta, anche meglio. Tre racconti brevi e uno fiume che funzionano bene allo stesso modo. E dimostrano che c’è ancora un cinema fatto così, non palloso a dispetto dell’apparenza festivaliera, della durata smisurata, del ritmo – si sarebbe letto nelle recensioni di una volta – cadenzato (Dune è più noioso).

Mi auguro che qualcuno vada a vederlo, a vederli. Magari nel primo pomeriggio, magari per sentirsi più giovane. E se non succederà, al massimo avrà visto un bel film.