Ecco perché dopo 40 anni abbiamo ancora un gran bisogno di Brian di Nazareth | Rolling Stone Italia
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Ecco perché dopo 40 anni abbiamo ancora un gran bisogno di Brian di Nazareth

Il capolavoro dei Monty Python, che trovate su Netflix come gran parte della loro produzione è, più che un ritratto dei suoi tempi, un manuale per smontare certa retorica a colpi di risate e assurdità

Ecco perché dopo 40 anni  abbiamo ancora un gran bisogno di Brian di Nazareth

'Brian di Nazareth'

Erano appena iniziati gli anni Ottanta quando in Inghilterra una serie di persone estremamente antipatiche cominciarono una campagna di disinformazione e odio che aveva come scopo finale il boicottaggio e la censura di una serie di pellicole cinematografiche considerate immorali da questo branco di conservatori bigotti. Li chiamarono “video nasties” e, con la connivenza delle beghine governative, riuscirono a rallentarne o fermarne la distribuzione nei cinema, condannandoli così a circolare e farsi una fama grazie a VHS di dubbia qualità ottenute di nascosto da appassionati coraggiosi, strappate a fatica dalle mani sudaticce degli spacciatori di filmacci che vivono negli scantinati bui. Xtro, Cannibal Ferox, L’ultima casa a sinistra, Anthropophagus… persino il capolavoro di Fulci E tu vivrai nel terrore finì sotto la mannaia della censura britannica, privando così milioni di spettatori del gusto di vedere su uno schermo gigante Michele Mirabella divorato dai ragni.

Era invece l’anno prima, il 1979, esattamente quarant’anni fa, quando nei cinema, ma non in tutti, arrivò un film che video nasty non era, non conteneva sangue o violenza estremamente grafica, ma che faticò comunque da matti a finire in sala, che negli anni a seguire è stato al centro di continue controversie e censure di ogni genere, e che ancora oggi è capace di far fare piccoli saltini sulla sedia agli animi più sensibili. Era il terzo film di un gruppo di comici inglesi che negli anni Settanta avevano rivoluzionato un po’ tutto quanto (la comicità, la televisione, la comicità in televisione) con il loro Flying Circus e sì è ovvio che sto parlando dei Monty Python e del loro Brian di Nazareth, quarant’anni a far incazzare chiunque. Tanti auguri.

Oggi è su Netflix, come gran parte della produzione dei Python, a disposizione soprattutto di chiunque non l’abbia ancora visto, perché chi l’ha visto l’ha sicuramente già visto decine di volte, non che un ripasso faccia male. È ancora adesso uno dei film più divertenti mai girati, un mix di satira pungente e umorismo di bassa lega fatto di scoregge e difetti di pronuncia e gente deforme. Soprattutto è universale. Certo quando uscì aveva i suoi bersagli e i suoi riferimenti, ma è un’opera che parla di politica e di religione organizzata nel senso più ampio del termine, e più che un ritratto dei suoi tempi è un manuale per smontare certa retorica, indipendentemente dal contesto a cui si applica, a colpi di risate e assurdità.

Celebrare Brian di Nazareth – in originale Life of Brian, il titolo italiano è un richiamo al Gesù di Nazareth di Zeffirelli, sui cui set tunisini venne girato anche il film dei Python – significa innanzitutto conoscerlo e capirne il perché. I Python non volevano farlo, o meglio non avevano messo in conto di proseguire con il cinema dopo la pessima esperienza di Monty Python e il sacro Graal – il cui successo però li spinse a riconsiderare la faccenda: c’erano bei soldi da fare con il cinema, nonostante i costanti litigi sul set tra Eric Jones e Terry Gilliam. Nacque così, dalla voglia di incassare e da un generale fastidio di tutto il gruppo per la religione organizzata, l’idea di un’altra parodia storica dopo quella dell’Inghilterra arturiana: un film sul Nuovo Testamento, costruito a partire da uno sketch nel quale Gesù si arrabbia con i carpentieri che gli hanno preparato una croce sbilenca che non sta in piedi.

E qui arriva la parte decisiva: nell’autobiografia dei Python, Eric Idle racconta che l’idea iniziale, quella che prevedeva Gesù come protagonista, venne scartata perché il signore Di Nazareth in fondo «era un bravo ragazzo» e che c’è poco nei suoi insegnamenti che valga la pena prendere in giro, anzi – in altre parole la dimostrazione che essere atei non impedisce di riconoscere il buono quando ce lo si trova davanti. Da qui l’intuizione di un’opera che sfottesse piuttosto i seguaci di Gesù, e più in generale chiunque si faccia incantare da un tizio che dice cose convincenti con parole semplici e dirette: il protagonista diventa così Brian Cohen, vicino di casa di Gesù (idea peraltro ripresa a modo suo da Christopher Moore nel bellissimo Il vangelo secondo Biff) e predicatore per caso, «not the Messiah but a very naughty boy» come recita quella che secondo molti è la battuta migliore del film.

Il risultato è un racconto che fa doppiamente incazzare le anime belle perché, per dirla con le definizioni degli stessi Python, è «eretico ma non blasfemo», un attacco frontale alla religione organizzata che risparmia gli oggetti di adorazione per concentrarsi sui meccanismi populisti di creazione del consenso e di manipolazione di parole e persone. È satira surreale e quasi kafkiana, che punta il dito su chi esige di farsi dire da qualcun altro come pensare altrimenti non ne è in grado. «Ascoltatemi!» implora a un certo punto Brian, eletto a gran voce nuovo Messia dopo essere stato rapito dagli alieni (è comunque un film dei Monty Python). «Non sono il Messia! Davvero!». «Solo il vero Messia avrebbe il coraggio di negare la sua divinità!» gli rispondono: è questo genere di meccanismo, di cieca devozione e bisogno quasi fisico di affidarsi a un ideale, che viene costantemente preso di mira in Brian di Nazareth, abbastanza da far infuriare al tempo le gerarchie ecclesiastiche di mezza Europa (il film venne proibito persino in Norvegia, tanto che in Svezia venne pubblicizzato come “Un film così divertente che i norvegesi l’hanno censurato”), ma anche abbastanza da convincere nel 2007 un prete illuminato a proiettarlo in una chiesa di Newcastle, perché «solleva importanti questioni sull’ipocrisia e la stupidità che possono colpire la religione» o qualcosa del genere.

C’è poi un inquietante secondo livello di lettura che è quello strettamente politico, inquietante nella misura in cui fa riferimenti pù o meno velati a persone e situazioni degli anni in cui è uscito ma è anche perfettamente applicabile al qui e ora, probabilmente a decine e centinaia di qui e ora sparsi per il mondo. C’è una scena, quella che apre il terzo atto del film e che potete vedere qui

nella quale un gruppo di maschi di mezza età, parte di una delle tante correnti in costante conflitto tra loro del movimento per la liberazione dai romani, discutono a colpi di mozioni sulle azioni politiche da intraprendere. Vengono interrotti da una giovane donna che in poche semplici parole spiega l’emergenza (Brian, il Messia, verrà crocifisso) e propone una soluzione (andiamo a liberarlo); la donna viene messa a tacere e liquidata con «another ego trip for the feminists», e i lavori riprendono come se nulla fosse successo – e ora ditemi cosa c’è di diverso da come funzionano le cose nel PD. E siccome nel 1979 il PD non esisteva ancora è chiaro che il punto non è chi volessero sfottere i Monty Python (la sinistra inglese degli anni Settanta, nello specifico), ma quante delle cose che i Monty Python sfottono siano vizi congeniti dell’azione politica, o addirittura dell’essere umano in quanto tale: la risposta è “parecchi”, e la grande satira esiste per isolarli, smontarli, depotenziarli e magari disattivarli a forza di prenderli in giro. Ed è per questo che nel 2019, a quarant’anni dalla sua uscita, abbiamo ancora un grande bisogno di Brian di Nazareth.