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Dal libro al film: il cinema impossibile di Cesare Pavese

Appassionato di film (e autore di soggetti per lo schermo), lo scrittore piemontese non è praticamente mai stato “filmato”. Storia di un amore non corrisposto: ma forse è stato giusto così

Einaudi ha pubblicato il volume Il serpente e la colomba, curato da Mariarosa Masoero, dove vengono raccolti i soggetti cinematografici di Cesare Pavese. Lo scrittore era un innamorato della cultura americana, e lo dichiara esplicitamente in un suo saggio: “Quella americana è una civiltà greve di tutto il passato del mondo e insieme giovane e innocente”. Una sorta di laboratorio dove si cercava un modo di essere alternativo, moderno, che la situazione italiana non permetteva: da qui la nascita del “mito americano”. E ci mise del suo, con talento e passione, traducendo alcuni degli scrittori fondamentali di quella letteratura, come Melville (Moby Dick), Dos Passos (Il 42° parallelo) e Steinbeck (Uomini e topi), fra gli altri. Essere innamorati della cultura americana significa, in automatico, esserlo di Hollywood. E Pavese lo era. Cercò di essere accettato come autore da cinema, ma non fu fortunato o, probabilmente, non aveva quell’attitudine.

Che lo scrittore considerasse il cinema qualcosa di molto serio, arte e non “evasione e spettacolo”, emerge da una risposta che diede a un cronista che lo intervistava. Gli venne chiesto: “Quali sono i suoi narratori preferiti?”; rispose: “Thomas Mann e Vittorio De Sica”. Parole che dette da uno come lui, di fatto contribuivano a legittimare il cinema verso l’alto, verso la letteratura, appunto. Pavese avrebbe fatto carte false per vedere i suoi libri diventare film, così com’era successo a due scrittori che amava, Hemingway e Fitzgerald, più grandi di lui solo di una decina di anni. Ma i suoi libri non possedevano la cifra del cinema, per molte ragioni, a cominciare dalla qualità della scrittura, che era letteratura vera, non solo racconto. Era introspezione più che azione.

Va detto che in quel senso Pavese era in ottima compagnia: anche Proust è autore impossibile per il cinema, proprio in chiave di letteratura e di introspezione. E poi lo scrittore, nonostante fosse, come detto sopra, un italiano culturalmente adottato dall’America, nei suoi libri raccontava vicende circoscritte, autoctone: era nato nelle Langhe, e quello era il mondo dei suoi romanzi. E da questo deriva un paradosso che omologa Pavese a uno dei massimi narratori americani, Salinger, che ha firmato forse il più grande romanzo americano del ‘900, Il giovane Holden, del tutto cinematografico peraltro, senza che diventasse film. La luna e i falò di Pavese è un testo apicale del Novecento italiano. Mai diventato film, vero almeno. Fa parte di un filmato dal titolo Dalla nube alla resistenza, che vive sulla lettura di testi misti e raccoglie anche brani dei Dialoghi con Leucò.

Così come il cinema aveva “ucciso” Fitzgerald, che a Hollywood si era visto bocciare spietatamente tutti i suoi tentativi (“Non possiamo fotografare gli aggettivi”, gli disse Mayer, licenziandolo), il cinema uccise Pavese seppure in modo diverso. Per amore, sì: per amore. Accadde che l’attrice Constance Dowling accompagnasse in Italia la sorella Doris, co-protagonista, con Silvana Mangano, di Riso amaro. Pavese conobbe Constance sul set e si innamorò di lei. L’attrice rimase in Italia per girare Miss Italia. La vicenda sentimentale non decollò, lo scrittore non fu corrisposto. La sua personalità complessa, introversa, il suo dolore esistenziale già… pericoloso. Lo portarono a una crisi profonda e insopportabile.

Il primo gennaio del ’50 scrisse sul suo diario: “Anche il dolore, il suicidio facevano vita, stupore, tensione. In fondo ai grandi periodi hai sempre sentito tentazioni suicide. Ti eri abbandonato. Ti eri spogliato dell’armatura. Eri ragazzo. L’idea del suicidio era una protesta di vita. Che morte non voler più morire”. Gran brutto segnale. E il 27 agosto di quello stesso anno Pavese occupò una camera dell’Hotel Roma di Torino e assunse sedici bustine di sonnifero. Sul comodino lasciò un biglietto con scritto: “Perdono a tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi”. In uno dei soggetti riportati nel libro, Suicidarsi è un vizio, Pavese racconta, con lucidità mortale, di Natalia, trovata in fin di vita in un albergo di quart’ordine. Ha tentato il suicidio, è stata salvata. Forse voleva solo essere salvata. Ma Pavese no, faceva sul serio. Appunto.

Col cinema qualcosa è successo, non molto. Nel 1955 Antonioni dirigeva Le amiche, con un cast cospicuo, Eleonora Rossi Drago, Valentina Cortese, Yvonne Furneaux e Gabriele Ferzetti. Un gruppo di amiche gravita intorno a una sartoria di moda. Una, “alla Pavese”, si suicida. Non è un film memorabile, comunque trattasi di opera di un grande scrittore nelle mani di un grande regista: qualcosa significa. È il miglior tributo del cinema a Cesare Pavese. Nel 1985 Vittorio Cottafavi diresse, per la televisione, Il diavolo sulle colline, uno dei tre racconti del volume La bella estate. Storia di tre amici diversi per cultura e censo, che si confrontano mentre incombe la guerra.

Nel 1935 Pavese venne arrestato per antifascismo e inviato al confino a Brancaleone, in Calabria. Nel ’92 la regione finanziò il film televisivo Prima che il gallo canti, romanzo quasi autobiografico che raccontava, appunto, il periodo del confino. Il regista era Mario Foglietti, l’interprete Giuseppe Pambieri. Un’opera dignitosa, niente di più. La letteratura e il cinema: arti a volte complementari, più spesso in contrasto. La combinazione non aveva giovato al grande scrittore piemontese. I titoli diventati film erano una riparazione inadeguata. Postuma per di più.

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