Cry me a River: quant’è difficile ricordare River Phoenix, oggi | Rolling Stone Italia
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Cry me a River: quant’è difficile ricordare River Phoenix, oggi

Morto ventenne per un’overdose di speedball, l'attore rimarrà per sempre un indecifrabile mistero, un ricordo dolceamaro che un po' continua a far male. Soprattutto oggi che avrebbe compiuto gli anni

Cry me a River: quant’è difficile ricordare River Phoenix, oggi

Foto: Michael Tighe/Donaldson Collection/Getty Images

Sono come Rob Fleming di Alta fedeltà (il libro, così tagliamo la testa al toro), ossessionata dalle classifiche. Con cadenza settimanale, talvolta quotidiana, ne compilo mentalmente circa un paio su qualsiasi categoria: le più belle me le appunto e di tanto in tanto le aggiorno, un lavoro che richiede metodo e obbliga a scelte dolorose anche perché l’unica regola che mi sono data è di non ammettere pari merito. Le più belle, dicevo, nonché quelle che mi danno maggiore soddisfazione, riguardano i titoli – di canzoni, di album, di libri, di serie tv –, soprattutto di film: nel mio personale podio, in una posizione che oscilla mediamente tra il primo e il secondo posto, c’è sempre e soltanto lui, My Own Private Idaho, barbaramente tradotto in italiano come Belli e dannati (che invece è in pole position nella graduatoria dei titoli più orrendi). My Own Private Idaho – continuerò a chiamarlo così per rendergli la giustizia che merita – è il nono film che vede protagonista River Phoenix, che oggi avrebbe compiuto gli anni.

My Own Private Idaho - Trailer

Chissà che cinquantenne sarebbe, oggi, River Phoenix. Avrebbe sette anni meno di Johnny Depp e Brad Pitt, quattro in più di Leonardo DiCaprio, e, credo, farebbe qualcosa di certamente interessante nella sua vita: andrebbe in tournée con la sua band, gli Aleka’s Attic (proprio oggi, un anno fa, la sorella Rain ha rilasciato sulle piattaforma due brani inediti: Alone U Elope e 2×4); ci delizierebbe con interpretazioni strepitose; dirigerebbe film indipendenti; forse gestirebbe un’organizzazione no-profit di successo.

Non è facile scrivere di River Phoenix, su di lui sono state versati negli anni fiumi e fiumi d’inchiostro, e non so se sarei in grado di aggiungere riflessioni stimolanti o dettagli avvincenti rispetto a quanto è già universalmente noto. Preferisco ricordarlo a livello più intimo e personale, quando in prima media compravo di nascosto Cioè (mia madre lo considerava stupido e diseducativo, non so se per via dei fotoromanzi con Massimo Ciavarro e Micaela Ramazzotti o per le lettere delle lettrici che puntualmente chiedevano «Se bacio con la lingua il mio fidanzato posso rimanere incinta?»), e lui almeno una volta al mese occupava la copertina adesiva o il posterone staccabile al centro del giornaletto. All’epoca – era l’inizio degli anni ’90, e Cioè era una rivista piuttosto democristiana, nonostante il terrore di gravidanze indesiderate del suo pubblico – River Phoenix veniva descritto come «il nuovo James Dean», tralasciando buona parte del torbido che le testate americane amavano spiattellare in prima pagina.

Per torbido mi riferisco a una famiglia abbastanza squinternata: i genitori hippie che trattavano i figli più come amici che come prole, che vagabondavano per gli Stati Uniti facendosi di LSD dalla mattina alla sera e che invitavano River e la sorella più piccola Rain a suonare per strada in modo da racimolare qualche dollaro. Per torbido mi riferisco all’ingresso nella setta religiosa dei Bambini di Dio, dove River perde la verginità a quattro anni per seguire la dottrina promossa dal leader spirituale David Berg. Per torbido mi riferisco alla mancanza d’istruzione, al veganismo forzato che non ammette deroghe, alla precoce iniziazione al consumo di alcolici (la leggenda narra a dieci anni, per tenere compagnia al padre alcolizzato). Tutto questo non l’appresi che in seguito, abbandonando via via il buon Cioè e sostituendolo con i vari Select, Kerrang!, The Face, Rolling Stone, NME e Melody Maker, che a Bologna teneva un’unica edicola e che costavano cifre spropositate, ma che mia madre era ben felice di finanziare pur di non beccarmi con una pubblicazione da quattro soldi infilata nello zaino. Imparai anche che River Phoenix, oltre alla faccia d’angelo e all’aura da maledetto che tanto m’affascinava e che compromise in maniera irreversibile i miei innamoramenti adolescenziali, era pure nel giro giusto. Flea e John Frusciante, Michael Stipe, Adam Horovitz, Keanu Reeves, Gibby Haynes dei Butthole Surfers, Johnny Depp, Christian Slater: in pratica, la risposta californiana e losangelina al Seattle sound, la giovane Hollywood che allora si mischiava con i musicisti, gli attori che capitanavano band che non erano manco malaccio, senza dimenticare un bel po’ di cocaina, eroina, GHB e serate al Whisky a Go Go, al The Roxy e al Viper Room.

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Passai in rassegna la filmografia di River Phoenix in VHS, cominciando con Stand by Me – Ricordo di un’estate di Rob Reiner, di cui avevo letto il libro di Stephen King; passando per Vivere in fuga di Sidney Lumet; Ti amerò… fino ad ammazzarti di Lawrence Kasdan; I signori della truffa di Phil Alden Robinson; Quella cosa chiamata amore di Peter Bogdanovich; fino ad arrivare a My Own Private Idaho di Gus Van Sant, che valse a River Phoenix la Coppa Volpi come migliore attore alla Mostra di Venezia nel 1991 e un Independent Spirit Award. My Own Private Idaho, sia al cinema che in VHS, uscì con un divieto ai minori di quattordici anni, che io ancora non avevo quando lo vidi per la prima volta: in casa mia il veto passò inosservato, per la strana regola secondo la quale mi era permesso vedere e leggere pressoché qualsiasi cosa, a patto che non fosse scema. Non fu una visione semplice o immediata, lo ammetto, ma d’altronde nessuna cosa meravigliosa è mai semplice o immediata: la scena attorno al falò, dove Mike confessa il suo amore a Scott e capisce di non essere ricambiato, mi frantumò – e mi frantuma tuttora – il cuore, al punto che (come altri film stupendi rei d’avermi devastata) non m’azzardai a riguardare My Own Private Idaho per parecchio tempo.

Di lì a poco River Phoenix morì a causa di un’overdose di speedball sul marciapiede davanti al Viper Room, locale in parte di proprietà di Johnny Depp: era il 31 ottobre del 1993, e nessuna delle persone insieme a lui – inclusa la fidanzata Samantha Mathis, il fratello Joaquin e la sorella Rain – dopo la prima delle cinque violente crisi epilettiche che lo colpirono chiamò subito il pronto soccorso. Sapevano che c’erano di mezzo delle droghe, la notizia che l’attore non stesse affatto bene aveva preso a circolare all’interno del club, temevano sarebbe scoppiato un casino e dissero persino al buttafuori che si trattava di un malessere passeggero. Dopo otto lunghi minuti, Joaquin si rese conto della gravità della situazione e chiamò il 911, ma i soccorsi non sarebbero mai arrivati in tempo: nel corpo di River Phoenix c’erano dosi eroina e cocaina rispettivamente otto e quattro volte superiori a quelle letali, unitamente a tracce di crystal meth e cannabis.

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Il successo giunto all’improvviso, una famiglia consapevole delle dipendenze del figlio e ciononostante connivente, sentire di non essere all’altezza a soli ventitré anni, il denaro, un’infanzia che non è stata un’infanzia: le supposizioni circa una fine così tragica sarebbero infinite e rimarrebbero, comunque, esclusivamente delle supposizioni. River Phoenix è stato recentemente rievocato dal fratello Joaquin, che ha emozionato la platea dell’Academy con l’acceptance speech per l’Oscar conquistato con il suo ruolo da protagonista in Joker: «Quando mio fratello aveva 17 anni, scrisse queste parole: “Corri verso il rifugio con amore, e troverai la pace” ». Molte testate si sono sentite in dovere d’aprire una parentesi e raccontare chi fosse River Phoenix, elencando una serie di fatti puramente biografici e cercando di spiegare perché fosse così rilevante, alla luce dei poco più di dieci film all’attivo. Il punto è che, fatto salvo l’indubbio talento e l’evidente carisma, non lo sapevamo bene nemmeno noi: «Penso che fosse il migliore. È. Era. È il migliore tra i giovani. Non lo dico solo ora, lo dicevo anche prima che morisse. Aveva un qualcosa che non riesco ad afferrare», affermò Brad Pitt all’epoca. Sarebbe stato bello averlo ancora qui, oggi, per poterci mettere alla prova: saremmo riusciti ad afferrarlo, quel qualcosa di cui parla Brad Pitt? Forse è proprio questo a struggerci, che River Phoenix rimarrà per sempre un indecifrabile mistero: un indecifrabile mistero che racchiude dentro di sé un pezzettino della nostra giovinezza, un ricordo dolceamaro che un po’ continua a far male.

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