Com’è l’autobiografia di Woody Allen? «Decidete voi» | Rolling Stone Italia
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Com’è l’autobiografia di Woody Allen? «Decidete voi»

Così scrive il regista newyorkese in 'A proposito di niente', l’atteso memoir appena uscito in Italia in versione ebook. Una cronistoria del suo (favoloso) passato per raccontare il nostro (disastroso) presente

Com’è l’autobiografia di Woody Allen? «Decidete voi»

Woody Allen nel 1971. Foto: John Minihan/Evening Standard/Getty Images

Se diamo per buona la tesi di The Social Network, Woody Allen è diventato Woody Allen per lo stesso motivo per cui Mark Zuckerberg è diventato Mark Zuckerberg: per piacere alle ragazze. Il secondo – è questa, sintetizzando, la tesi del capolavoro di Sorkin/Fincher – sul dare anche agli sfigati la possibilità di avere dei primi appuntamenti ci ha costruito il social più redditizio del mondo. L’altro, vabbè: sappiamo com’è andata.

Lo racconta Woody stesso, tra le altre cose, in Apropos of Nothing, la sua prima autobiografia: era questa la notizia. E invece tutti a parlare del fatto che il memoir sia stato, nei mesi scorsi, osteggiato, rifiutato, passato di editore in editore (in patria) per cose su cui torneremo. A proposito di niente, così in italiano, è uscito da noi lunedì scorso per La nave di Teseo in versione ebook, quella di carta arriverà il 9 aprile. Tornando alle ragazze. Da adolescente, scrive Woody, era esperto in storie di gangster, fumetti, baseball e giochi di prestigio: nulla di più lontano dalle fanciulle a cui puntava, tutte vestitini bon-ton e citazioni di Kierkegaard. Per semplificare: se non avesse dato almeno una sbirciatina a Balzac e a Tolstoj per ricevere, questa era la sua speranza, un bacio sull’uscio dopo la serata al cinema, Woody Allen non sarebbe mai diventato Woody Allen. Oppure chissà. Visto che qua dentro non c’è niente ma, si capisce presto, c’è tutto, Woody Allen sarebbe diventato Woody Allen in ogni caso, pure se fosse rimasto Allen Stewart Königsberg come all’anagrafe. Sarebbe stato Woody Allen anche da gangster: uno dei sogni di bambino, perché quelle erano le storie che gli raccontava papà prima di metterlo a letto; o da collezionista di fumetti, giocatore di baseball, prestigiatore, altre strade fantasiosamente possibili. Woody ci ha spiegato in tutti i suoi film (e lo fa anche qui) che è il caso a governare tutto e tutti. Noi – sorcini di un autore che da sempre, senza falsa modestia, si meraviglia delle folle adoranti – vogliamo credere che ci sia dietro un destino.

Era un destino il nonno impresario nel ramo sale cinematografiche che vide le sue attività fallire al tempo della Grande Crisi. Era un destino il contatto (non sveliamo troppo) che lo portò a scrivere le «battute sulle suocere», come le liquida lui, per le pagine dei giornali, e poi per il teatro, e i varietà televisivi, e il cinema. Erano un destino le donne, tutte meravigliose e tutte meravigliosamente rimaste amiche (tranne una: ma ci torneremo su). Nel racconto della storia con l’adorabile squinternata Louise Lasser, c’è tutto il segreto dei ménage impossibili ma possibilissimi, perché prima o poi ci casca chiunque: tutto ci dice che non funzioneranno, e invece gli amori funzionano anche così. Come in quello scambio di Tutti dicono I love you, uno dei suoi film a me più cari (anche a lui). Joe/Woody fa la rassegna delle sue relazioni passati insieme a Steffi/Goldie Hawn, ex a sua volta. Si giustifica lui: «Carol era una poetessa con un quoziente intellettivo fuori dalla media!». Replica lei: «Carol era un’eroinomane!». Eccola, la sintesi perfetta.

Chi vuole un libro sul passato, lo avrà: i “radio days” in famiglia a Brooklyn, le stanze condivise nelle prime trasferte da autore comico, Tennessee Williams sulla porta del ristorante a tarda sera, gli splendidi maglioni di lana scozzese regalati da Peter O’Toole, i tentativi di fuga dalle feste, Cary Grant che va a vederlo al cabaret, le battute di caccia degli Hemingway, le tre sorelle non nel senso di Čechov ma di Diane, Robin e Dory Keaton. E, naturalmente, la genesi di tutti i film, ma mai dissezionati al dettaglio, perché «a chi studia cinema ho poco da dire». Vivere per lavorare o lavorare per vivere? Woody sbroglia, una volta ancora, l’eterno dilemma: tutte e due le cose, se servono a comprare le scarpe ai figli e a non pensare troppo alla nostra mortalità. E una non è più importante dell’altra.

Ma A proposito di niente è, soprattutto, un libro sull’oggi. Non solo per l’indignazione che questo ragazzino di 84 anni urla contro le biciclette che hanno invaso le città, e gli stand-upper che non si mettono più la giacca ma passano il tempo del loro spettacolo a bere acqua minerale, e le riunioni dei genitori dei compagni di scuola dei figli (ma solo perché Woody è rimasto agli sms: chissà che penserebbe delle chat su WhatsApp). Il nodo della seconda parte del libro, e degli ultimi trent’anni di vita del suo autore, è Mia Farrow. Una storia cominciata, o quasi, davanti alla salma di Thelonious Monk non poteva essere del tutto funzionale, lascia intendere lui da subito. L’altra frase-chiave è: «In quanto attrice, era propensa a recitare». Mia ha recitato la parte della madre santa (in realtà era una “mammina cara” peggio di Joan Crawford: se non conoscete tutti i particolari in cronaca, rimandiamo alla lettura del libro). E poi della leonessa da tribunale capace di architettare il più grande show divorzista degli ultimi decenni. Woody, lo ammette, sconta ancora adesso il peccato originale d’essersi innamorato (ricambiato) di Soon-Yi, figlia di Farrow (non di Allen, a scanso di equivoci ancora in voga) molto più giovane di lui; è successo, e la prova è un matrimonio felice, che dura da più di vent’anni. Woody non è mai andato dietro alle ragazzine: la differenza d’età tra lui e Soon-Yi è notevole, ma per il resto, ricorda lui, ha amato quasi sempre coetanee, e al massimo «ho usato il tema dell’amore tra persone di età diversa come espediente comico o romantico a seconda dei casi, nello stesso modo in cui ho parlato di psicanalisi, di delitti o di umorismo ebraico. […] Certo, un titolo come Uomo ha relazione con donna anagraficamente corretta fa molto meno scalpore». Woody, soprattutto, non ha mai abusato sessualmente di Dylan, figlia adottiva sua e di Farrow: due diverse indagini giudiziarie all’inizio degli anni ’90 l’hanno scagionato da ogni accusa. Ma, inevitabilmente, si trova a ripercorrere la scellerata macchina architettata da Mia oggi che, in epoca MeToo, la vicenda delle false molestie è tornata sulle prime pagine dei giornali. La sua innocenza è sempre stata evidente, ma lui rimanda il verdetto al lettore: «Decidete voi».

Kristen Stewart, Woody Allen, Jesse Eisenberg sul set di Café Society

Questo è un libro sul presente, si diceva. Oggi Woody è un paria dell’industria, un reietto del nuovo establishment, un mostro. (Questo, parentesi, è anche un libro sull’attuale deriva della stampa e del lavoro di giornalista: l’autore lamenta che pure l’autorevolissimo New York Times, il quotidiano che legge – leggeva? – ogni mattina, ha abbracciato la tesi del “mostro” senza uno straccio di prova, ma solo perché allo storytelling in corso stava bene così.) A proposito di niente è il racconto precisissimo di un tempo, il nostro, in cui per tutti è più comodo «salire sul carro confortevole del politicamente corretto». Autore tra quelli che hanno saputo raccontare meglio le donne (e che hanno impiegato più donne sui loro set, come produttrici, montatrici, in ruoli di ogni tipo), Woody ora è tragicomicamente vittima dei movimenti neofemministi, democratico non gradito (Hillary Clinton ha rinunciato al suo sostegno finanziario per la campagna presidenziale), regista prima amatissimo e ora rinnegato dalle star: «Non lavorare con me era il trend del momento – come quando tutti scoprono il cavolo nero». Nel memoir, per ovvi motivi, manca l’ultimo episodio: le proteste dei quattro stagisti (semplifico) della casa editrice che aveva comprato i diritti del libro dopo il rifiuto di pressoché chiunque, cioè Hachette, che hanno costretto la casa editrice stessa a fare dietrofront. Sono questi i tempi stupidissimi che stiamo vivendo. (Alla fine, negli Stati Uniti Apropos of Nothing uscirà per Arcade Publishing.)

Woody Allen non ha mai avuto il tempo e la voglia di stare appresso ai fan, perché era troppo impegnato ad essere fan a sua volta. Dei grandi jazzisti che, lo sa, non potrà mai emulare, nonostante il suo clarinetto affolli le sale da concerto di mezzo mondo. Degli attori che, ancora gli dispiace, talvolta ha deluso. Soprattutto, di quelli che lui chiama i “registi artisti”: noi mettiamo anche lui nel mucchio, ma per lui resta un equivoco. È solo per «il talento di appropriarmi di citazioni di testi eruditi che vanno al di là della mia comprensione ma che possono essere usati nel mio lavoro per dare l’ingannevole impressione di essere più colto di quanto non sia». In definitiva, ha fregato anche noi, con quella spolverata di Balzac e Tolstoj utile solo a compiacere le prime ragazze con cui usciva. Il regista artista più venerato, studiato, pure imitato da Allen è – lo sapevamo già, lui ci tiene sempre a ricordarlo – Ingmar Bergman. Il sogno di Woody era fare un film come i suoi, tanto da rubargli attori, direttori della fotografia, chiunque potesse aiutarlo nell’impresa. Ce l’ha fatta? Decidete voi. Questo libro, per certi versi, è il grande dramma di un uomo che Woody non aveva ancora scritto. Lui dirà: sì, ma si ride ancora troppo. E chiamerà il solito amico per cambiargli il nastro della macchina da scrivere (lui non è capace). E si metterà al lavoro, di nuovo, come sempre. Provando a convincerci che c’è tutta la vita per scrivere il vero capolavoro drammatico. Anche questa, in fondo, era solo una commedia come tante.