Addio a John Singleton, pistolero del cinema | Rolling Stone Italia
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Addio a John Singleton, pistolero del cinema

Il regista di ‘Boyz N the Hood’, morto di infarto il 29 aprile, ha mostrato a tutti la tragedia dei ghetti con un cinema senza compromessi, lontano dal mainstream. «Non abbiate paura di essere neri», diceva ai giovani registi

Addio a John Singleton, pistolero del cinema

John Singleton

Foto: Eli Reed/Universal/Kobal/REX/Shu

John Singleton amava parlare di cinema. A volte lo faceva per raccontare l’arte nascosta dietro al processo di produzione; altre solo per divertimento. La sua morte è stata scioccante – aveva 51 anni ed era in coma dopo un infarto — e si è portata dietro prevedibili discorsi su Boyz N the Hood, il film del 1991 che lo trasformò nel più giovane (aveva solo 22 anni) candidato per l’Oscar alla regia. Il suo debutto, però, ha avvolto nell’ombra il resto della sua carriera. Ma non si è mai fermato, e dopo Boyz ha girato Poetic Justice, Higher Learning e altri film sconvolgenti sulla violenza razziale, riflessi della sua infanzia a South Central Los Angeles.

L’ultima volta che ho parlato con Singleton, paragonò il business del cinema al Vecchio West, dovevi combattere per assicurarti che la tua visione arrivasse sullo schermo. Per Singleton tutti i suoi film erano western. Insisteva a dire che persino Star Wars, il film che amava da ragazzo, era un western mascherato da space opera.

Tuttavia, il suo film preferito del genere era Romantico Avventuriero di Henry King, un western del 1950 con Gregory Peck nel ruolo di Jimmy Ringo, un pistolero pronto a impiccare un criminale e lasciare la vita da eroe per sistemarsi con moglie e figlio. «Ma il mondo non glielo lasciava fare», diceva. «I giovani della città volevano dimostrare di poterlo battere in duello, così da prendere il suo posto».

Singleton, parlando degli anni della sua formazione, si vedeva come uno di quei giovani pistoleri, e l’establishment di Hollywood era il suo Ringo. Le vie di South Central, invece, erano il campo d’addestramento. «L.A. negli anni ’80 e ’90 era una specie di stato di polizia», diceva. Così, quando è entrato nell’USC film writing program, ha continuato a inseguire il suo sogno di diventare regista e sceneggiatore. «Sono nato per girare questo film», diceva ai colletti bianchi dell’industria, che miracolosamente accettarono di produrre l’esordio di un ragazzino che aveva solo girato corti muti in Super 8. Nelle interviste, sembrava arrogante: «Ho la passione, e faccio vedere a chi non c’è l’ha quanto la loro vita sia banale».

Diceva che «Romantico Avventuriero è ovunque in Boyz N the Hood», solo che le tradizionali trappole western erano sostituite da sparatorie in macchina, e maltrattamenti della polizia. Il film si apre con una fredda statistica: “Su 21 ragazzi di colore, uno muore assassinato. Gli altri si uccidono con le loro mani”. La giustizia di frontiera comanda nel ghetto. Doughboy, il personaggio interpretato da Ice Cube, è condannato dall’etica della sua gang. È il suo amico Tre (Cuba Gooding, Jr) che trova una via di fuga grazie al padre, Furious Styles (Laurence Fishburne). L’uomo spiega a Tre che ogni ragazzino punk può andare a letto con una donna, ma “solo un vero uomo può crescere dei figli”. La ramanzina è vicina al cuore del film, cioè il rapporto tra padri e figli. Ma anche Furious, un veterano del Vietnam, tiene una Magnum a portata di mano. E a differenza di Ringo, non ha paura di usarla. La violenza, nel ghetto, è inevitabile.

Il documentario del 2011 Friendly Fire: The Making of an Urban Legend, ricorda come Singleton fece la storia con Boyz, un film girato con un budget di soli $6 milioni. Ma c’è altro. «Ho dei topi nella testa», diceva a proposito di come si sentiva davvero, temeva di abbassare la guardia e lasciare che una formula commerciale potesse intrappolarlo, impedirgli di improvvisare e rompere le regole. In Higher Learning, in cui racconta la storia di un’università immaginaria dove gli studenti bianchi e quelli neri vivono insieme in una sorta di armonia utopica, Singleton si rifiuta di confortare il pubblico con gli happy ending che Hollywood ha inserito in film come Indovina chi viene a cena e Green Book. Quando parlava ai giovani registi afroamericani, diceva: «Non abbiate paura di essere neri». Prendersi dei rischi era essenziale per la sua sopravvivenza: «Non infilatevi le palle nel culo per sentirvi accettati».

La sua “svolta personale”, diceva, arrivò nel 1997 con Rosewood, la storia vera di Rosewood, città della black Florida virtualmente rasa al suolo nel 1923 quando gli abitanti della città vicina decisero che un nero di Rosewood aveva stuprato una donna bianca. Un evento rimasto segreto per anni, ma che diede a Singleton la possibilità di affrontare il razzismo che imperava in America. Voleva che “il segreto” venisse alla luce, una determinazione che aveva già espresso con la voce di Doughboy in Boyz, quando si scagliava contro l’apatia del mondo esterno: «O non sanno niente, oppure non gli interessa quello che succede nel ghetto».

Per il regista, invece, era importante, ma il flop al botteghino di Rosewood fece sì che il suo istinto prendesse il sopravvento. «Non ho niente contro chi vuole divertirsi», disse all’epoca. Ma non smise mai di cercare. In Shaft (2000), cercò di recuperare l’energia blaxploitation dell’originale del 1971 nonostante una sceneggiatura ri-scritta da un autore bianco, Richard Price. In 2 Fast 2 Furious (2003), Singleton inventò un sequel nato solo per soddisfare le aspettative economiche di Vin Diesel; il lavoro del regista era solo di “rendere fico” Paul Walker e introdurre il nuovo arrivato Tyrese Gibson. Il film finì quasi per funzionare («Ho girato il Fast and Furios più nero di tutti»). Per quanto riguarda Four Brothers (2005), l’obiettivo di Singleton era girare – che sorpresa! – un western urbano in cui quattro fratelli (Mark Wahlberg, Andre Benjamin, Garrett Hedlund e Tyrese) cercavano vendetta per l’omicidio della madre adottiva. Ma non scrisse la sceneggiatura. E si vede.

Il miglior film durante il periodo “commerciale” di Singleton è Baby Boy (2001), sequel ufficioso di Boyz N the Hood che deve molto a una sceneggiatura che torna alla storia di uomini neri incapaci di fare i padri. Tyrese Gibson interpreta il ruolo principale, che in origine era stato scritto per l’amico del regista Tupac Shakur. L’omicidio del rapper, nel 1996, fece vacillare Singleton. «Ha spostato la mia vita su un’altra traiettoria», diceva. La morte di Tupac lo costrinse a cambiare il suo modo di fare il regista, a diventare uomo. Singleton sognava da tempo di girare un biopic sulla vita di Tupac, ma non ci è mai riuscito. Peccato.

Aveva avuto rimpianti peggiori, come quando rifiutò di dirigere la prima stagione di The Wire, e per questo era felice di lavorare a Snowfall, la serie crime di FX a proposito dell’epidemia di crack nella Los Angeles degli anni ’80. Secondo Singleton era una piaga che colpiva tutti – neri, ispanici, i teenager bianchi della Valley. «Non vivo in una black bubble, so raccontare storie diverse», diceva. Qualcuno aveva dubbi?

Anche nei suoi film peggiori è possibile vedere quanto abbia combattuto contro gli studios, spesso in nome della sua libertà d’espressione. Questa è la vera eredità dei suoi film, il lavoro di un pistolero del cinema che non ha mai smesso di pianificare la sua prossima mossa, combattere il potere e i topi che aveva nella testa.

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