Non dovevamo tornare a casa dei genitori per le feste: è stata una pena, e lo è anche adesso | Rolling Stone Italia
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Non dovevamo tornare a casa dei genitori per le feste: è stata una pena, e lo è anche adesso

Tutte le tue piccole certezze da adulto anagrafico, da ipotesi di adulto, le certezze sedimentate in anni di piatti lavati a mani nude e di bollette pagate all’ultimo, tutte le tue strategie per abituarti a estranei sempre diversi, tutto ciò, nel giro di pochi giorni in casa con i tuoi genitori, svanisce.

Non dovevamo tornare a casa dei genitori per le feste: è stata una pena, e lo è anche adesso

Foto Oote Boe Photography / Alamy / IPA

Tornare dalla provincia nella grande città dopo le feste natalizie, o dopo le vacanze estive, vuol dire tornare adulti. Per quanto tu sia ormai decrepito, per quanto tu viva distante dalla casa in cui sei cresciuto, per quanti anni siano trascorsi da che l’hai lasciata per cercare fortuna altrove, quando ci resti per un periodo più lungo di uno o due giorni ti chiedi se hai mai smesso di essere un adolescente che si sfrega le mani con l’alcol dopo una sigaretta alla finestra.


Tutte le tue piccole certezze da adulto anagrafico, da ipotesi di adulto, le certezze sedimentate in anni di piatti lavati a mani nude e litigate con i muratori e di bollette pagate all’ultimo, tutte le tue strategie per abituarti a estranei sempre diversi, per imparare a dare del tu alla solitudine e a farti dare del lei dal mondo, tutto ciò, nel giro di pochi giorni in casa con i tuoi genitori, svanisce. 


Torni a dormire, di nuovo, in quella stanza che – anche se è il doppio dell’appartamento in cui vivi da solo – ha la natura della “cameretta”. Non è il centro della casa, né la stanza padronale: è decentrata, subalterna. Ancora le foto di te da bambino sul comò, i poster di qualche squadra e di qualche band alle pareti, gli scaffali saccheggiati dove i pochi libri rimasti si inclinano l’uno contro l’altro, nel portapenne mozziconi di matite a cui nessuno rifà la punta da chissà quanto, e, nei casi peggiori, qua e là, polverosi e umilianti peluche. Ogni cosa si è fermata, calcificata, vittima del sortilegio dei figli che se ne vanno. 


I tuoi genitori hanno voglia di guardarti, toccarti, di parlare. Ti seguono in cucina, in giardino, su per le scale, fino al bordo della doccia. E ora che fai, te le cavi davanti a loro o no, le mutande? Ti hanno fatto quelle due persone lì, in fin dei conti, e hanno visto il tuo pisello allungarsi centimetro dopo centimetro. Però, Cristo, la gente là fuori mi chiama dottore: come si fa a mostrare l’uccello a mammà? Qualsiasi decisione tu prenda – invitarli con dolcezza a lasciarti solo, sbattergli la porta in faccia, smutandarti senza vergogna – poi la rimuginerai, sentirai che qualcosa è comunque andato storto.


Per quanto breve, si tratta di una convivenza con individui dalle solide abitudini: bisogna rispettare gli orari dei pasti, non è che arrivi quando vuoi e ti butti su una pasta al tonno, si deve invece spaccare il minuto (13.00 e 20.30) e ringraziare la mamma e dire che è tutto molto, molto buono.

E la sera bisogna rincasare a un’ora decente. Quasi sempre per arrivare nella tua camera devi passare davanti a quella dei genitori. Non aspettavano altro che rimmergersi nel passato, nel loro antico sonno vigile, da gatti, come se tu fossi ancora un quattordicenne che fa le gare in scooter e che se ritarda magari è perché l’hanno portato al pronto soccorso con fratture multiple. Che bella rimpatriata: mamma, papà e le ipotesi di morte. Quindi, anche oggi che hai 30 o 40 anni, ti levi le scarpe, e cerchi di guadagnare la tua zona franca di poster e peluche in punta di piedi. Di colpo ti ricordi che i gradini hanno la facoltà di scricchiolare. Nello spalancare la tua porta, ti senti premere sulla nuca un giudizio che pesa come dovrebbe pesare quello del tuo amministratore delegato, del tuo direttore, del socio del tuo studio, non di quelli che ormai, teoricamente, non sono nulla più che tuoi colleghi nel mestiere della vita adulta.

E quindi, come ogni adolescente che si rispetti, ti incazzi. Faresti qualsiasi cosa per non mettere su quella faccia scura da incompreso tutto seghe e bestemmie mormorate, per non tenere gli occhi fissi sulla minestra per l’intera cena, per non rispondere a mezze frasi stizzite, ma è più forte di te. Anche tu sei vittima della stesso sortilegio. La casa è stregata. E i genitori, proprio come una volta – solo più stanchi, più lenti, più morti – si guardano, e scuotono la testa. Ah, che cosa abbiamo sbagliato, con questo qui.

Magari non sei una persona problematica, anzi, tutti ti considerano ragionevole, a tratti perfino gradevole, eppure, lì dentro, non sei più così sicuro di sapere chi sei. Forse sei un ragazzino scapestrato e insicuro che chissà che fine farà. Certo, adesso allo specchio vedi una ruga qui e una stempiatura lì, però la maturità non si misura con lo sfigmomanometro. Forse non te ne sei mai andato da qui dentro, da questa casa, dai tuoi quindici anni. Soffochi e credi che quando le vacanze finiranno tirerai un respiro di sollievo. E invece, nel vedere i tuoi genitori che, sempre più curvi e traballanti, ti aiutano a caricare i bagagli con gli occhi lucidi e un’ultima carezza sempre in canna, ti senti di avere sprecato ancora una volta del tempo che non tornerà, un’irrecuperabile occasione di amore.

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