Milano, Italia. Un’apocalisse pizza e fichi e noccioline | Rolling Stone Italia
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Milano, Italia. Un’apocalisse pizza e fichi e noccioline

La prima reazione è il panico, la seconda pure, e anche la terza e la quarta. Ma alla fine arriva l’eccitazione: per una volta, stiamo vivendo la Storia. E via di aperitivino

Milano, Italia. Un’apocalisse pizza e fichi e noccioline

Foto: Andrea Diodato/NurPhoto

Nella stazione di Porta Garibaldi, i tonfi dei trolley trascinati a peso giù dalle scale, quelle mobili sono immobili, è notte. Il Sistema dorme: la gente scappa. Dove? Non importa, lontano. Lo scappare non ha dove. Gli abbracci di chi non è sicuro di rivedersi, ma poi si stacca e alla fine fugge da quelli che restano perché, dopo tutto, “se morissi gli darei un dispiacere”.

Lo sferragliare della bici solitaria di un rider Glovo sul pavé di Foro Buonaparte, il canto del cigno della produttività padana è africano. Nel silenzio dei marciapiedi, le canzoni dagli auricolari dei podisti, ritornelli carini, morfina acustica, bruciare calorie fino alla fine, eutanasie salutiste. Fuori dalla finestra, in lontananza, qualche guaito: le bestie non sanno, continuano a cantare l’amore e la rabbia. La terra di nuovo ai quadrupedi, per loro non c’è differenza tra un sasso e un mattone, anche la città è tutta fatta di natura. Gli umani tacciono, un cielo sereno e prelinguistico sulla metropoli. Il traffico scorrevole, accelerate regolari, lisce, niente clacson. Ecco una sirena: un’ambulanza: un tampone: un ricovero: una rianimazione: niente da fare, tirerà le cuoia. Sirena: campana a morto.

Zona rossa, non si può uscire. Solo per “giustificato motivo”. L’Italia tutta si giustifica da quando era un’espressione geografica, figuriamoci: zona amaranto, porpora, vermiglia, ciliegia, marsala, largo al copyright per un nuovo pantone. Le serrande di via Paolo Sarpi chiuse da settimane, i cinesi hanno fiutato la puzza d’Anticristo prima degli altri: tanto, tra diciottomila anni, si schiuderà ancora l’uovo cosmico di Pangu e tutto ricomincerà daccapo. Le facce scure e gli occhi in camera – perché la minaccia è seria – l’eloquio lento e il tono basso – perché invece il panico è dannoso – di politici e virologi – le guance calcolatamente rilassate. Quelle facce che nei film catastrofici ti fanno vedere nei titoli di testa, per mostrarti in due minuti come si è arrivati a quel deserto di cemento urbano in cui l’eroe caccia la selvaggina armato di balestra con mirino laser. Siamo un antefatto.

Il sole di marzo, che sta prendendo le misure alla primavera, fa brillare i comignoli zincati, che liberano ancora il fumo d’inverno: la gente sui balconi si sfrega le mani, “però fa caldo”, si alza le maniche, “dicono che col caldo passerà”. La pelle d’oca: ogni dichiarazione – “dobbiamo resistere”, “andrà tutto bene” – procura ondate di brividi su e giù per i corpi degli isolati. Le code fuori dai supermarket con gli ingressi a goccia, file distanziate, gli sguardi diffidenti verso chi ci precede: prima che per “quello c’ha il virus”, per “quello prenderà l’ultimo broccolo”. Raschiare il fondo del barile di Netflix. I refresh sulle homepage dei quotidiani: lo facevamo per vedere l’aumento dei like; da qualche giorno, quello dei morti. Addio al medico-eroe dell’Alzheimer, aveva solo 61 anni, era sano, spulciare le sue foto, “secondo te non è sovrappeso?”, compulsare il suo quadro clinico, “Dio mio, dimmi che era almeno iperteso”.

Nei televisori milanesi, il vociare distinguibile, da lite condominiale, delle panchine di Serie A; i bassi delle canzoni motivazionali del pre-gara pompati sulle gradinate vuote; i calciatori eccezionalmente esentati dal metro di distanza, il sacrificio dei circenses, sennò come fai a marcare, sai la noia, poi la gente spegne ed esce e si tocca; campi da gioco come zona franca, alitate in mischia, goccioline di saliva nelle proteste urlate, s’è buttato, la mano era attaccata al corpo.

Le cartine del pianeta: da Milano partono frecce rosse di morte dirette ovunque – fottuta CNN, ci godranno i francesi, Notre Dame è una pizza bruciata. L’orgoglio segreto del kamikaze: però adesso siamo noi il centro del mondo, il centro dell’Apocalisse. La prima reazione è il panico, la seconda pure, e anche la terza e la quarta. Ma la nona o la decima è l’eccitazione. Parli con la gente e viene fuori un sussurro: in queste ore stiamo vivendo la Storia. Proprio qui, mormorano, proprio ora. La crisi dei missili di Cuba, siamo la nuova Florida, le navi sovietiche sono pronte a sfondare il blocco navale, là in fondo si alzano già i funghi atomici. Sentiamo la Fine alla nostra portata. Una generazione di imbelli appiattiti sull’oggi a cui dei pangolini infetti hanno regalato la profondità di un destino.

– Fa curriculum, la Fine.
– Avrei combinato un sacco di cose belle, in fondo ce l’avrei fatta, nonostante la crisi e tutto il resto, e poi l’Apocalisse mi ha rotto le uova nel paniere, mannaggia.
– Ma che dici? Eravamo lì a scaldare il posto per il prossimo secolo, figli di mezzo della Storia, e di colpo siamo i suoi ultimogeniti, i becchini cosmici, capito?
– Boh, l’età media dei morti è alta.
– Poveri nonni.
– Aperitivino?
– Sì, ma in quel posto coi divanoni, così stiamo distanti.
Giusto, là le noccioline sono buonissime.

“Dopo questo, vidi un altro angelo discendere dal cielo con grande potere, e la terra fu illuminata dal suo splendore. Gridò a gran voce: ‘È caduta, è caduta Babilonia la grande’”.

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